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scheda di Paglieri, M., L'Indice 1985, n. 6
In un'autobiografia dal titolo allusivamente dantesco lo scrittore svedese ripercorre la sua giovinezza nei primi decenni del Novecento. Nato in una famiglia alto borghese intenta alla conservazione di atavici privilegi, ma anche all'edificazione della nuova Svezia delle società per azioni e delle multinazionali, Lagercrantz vive un'infanzia disperata: oppresso da un padre arido e severo e da una madre debole e sofferente, egli trova rifugio dapprima nei sogni ad occhi aperti, poi nella malattia. La lunga degenza in sanatori fornisce un alibi alla sua incapacità di scegliere, l'isolamento lo porta dapprima alla scoperta della letteratura e quindi alla formulazione di una concezione mistica della poesia, unico antidoto, anche se forse ingannevole, all'angoscia e alla morte. E la morte volutamente ricercata, come pure la sofferenza e la follia, sono sempre presenti nel racconto e scandiscono il destino di esistenze femminili - la madre, la sorella, la zia - condannate all'estraneità dal mondo. Con uno stile essenziale limpido, talvolta persino freddo, in cui l'analisi razionale e il sentimento del tempo si fondono continuamente, Lagercrantz ci offre un ritratto di sé lucido e distaccato, mentre sullo sfondo si delinea una società spietata, dove non c'è posto per chi, come lui, non ne accetta le regole. Di tanto in tanto l'autore esce di scena e cede la parola agli scrittori più amati, da Dante a Virgilio, da Knut Hamsun a Hermann Hesse, da Joseph Conrad a Thomas Mann.
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