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L’autobiografia di Sonia Sotomayor, primo giudice ispanico – per di più donna – nella storia della Corte suprema federale statunitense, è il racconto di come la forza di volontà, la determinazione di carattere e l’ambizione personale possano consentire di raggiungere traguardi inimmaginabili. Sonia cresce in un contesto di forte disagio economico. Figlia di immigrati portoricani che non parlano inglese, vive il dolore di un padre alcolista che muore quando lei è ancora bambina. Le condizioni perché Sonia sia risucchiata nella spirale della droga e nel degrado di una vita fatta di espedienti sono tutte presenti. Invece le sue doti personali davvero eccezionali (...) la conducono nell’“Olimpo degli dei”. Uno scranno, fra i nove a disposizione, nella Corte suprema del paese più ricco del mondo è l’oggetto del desiderio di ogni giurista che abbia l’ambizione di cambiare il diritto statunitense. È questo il ruolo che a partire dal 1803 la Corte suprema è riuscita a rivendicare per sé e che le ha dato per esempio la possibilità di cancellare negli anni cinquanta del secolo scorso la segregazione razziale. Un terzo potere fortissimo, dunque, quello della Corte suprema americana, le cui decisioni hanno cambiato e continuano a cambiare il volto del paese. (...) Per quanto l’autobiografia della Sotomayor possa sembrare veicolare il messaggio ottimista che nella land of opportunity con molta capacità e tanta buona volontà qualsiasi meta è in fondo raggiungibile, la cruda verità è che (...) i costi per raggiungere l’olimpo della professione forense sono altissimi. E ciò in termini tanto strettamente personali quanto politici.
L’ipocrisia della formale separazione fra politica e diritto che caratterizza il sistema nord-americano (...) pare assumere un peso determinante sulle scelte professionali effettuate dalla Sotomayor. Sonia vorrebbe mettere al servizio dei più deboli le sue capacità, ma il timore di esporsi politicamente sembra frenare il suo generoso impulso. Le sue attività lavorative non sono svolte a vantaggio dei meno fortunati. A New York la Sotomayor non diventa avvocato difensore degli imputati più poveri. Sonia sta dalla parte opposta: quella dell’accusa. (...) Né, quando passa alla pratica civile, si occupa di far valere le ragioni dei perdenti nei confronti dalle grandi corporation, ma si pone, al contrario, al servizio di queste ultime per tutelarne il marchio. (...) Quando poi è finalmente alla Corte suprema, potrebbe efficacemente imporre un’interpretazione del diritto a favore dei più deboli. Ma è qui in agguato la terza delusione. Le opinioni di Sonia Sotomayor, per quanto sicuramente molto coraggiose, sono nell’era del Trumpismo destinate con ogni probabilità a rimanere di minoranza e quindi senza effetti. È questo l’ultimo amaro frutto dell’avventura professionale di una donna dalle doti straordinarie ne dalla notevole dirittura morale, in un sistema in cui, al di là degli enunciati, il diritto e la politica non si separano mai.
Recensione di Elisabetta Grande
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