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recensione di Chiarloni, A., L'Indice 1990, n. 7
"Danzai con Minn, il figlio del Sultano del Marocco. Danzammo, danzammo come due serpenti, sul palcoscenico dell'Islam, serpeggiando fuori da noi stessi al ritmo del seducente suono del flauto dell'incantatore e di un tamburo antico quanto i faraoni, dai sonagli eterni". Chi scrive - sono lettere ad uso del marito in viaggio in Svezia con un amico - è Else Lasker-Sch|ler, pittrice fotografa e poetessa, esponente di punta di quella bohème berlinese che nei primi anni del Novecento si ritrovava nel celebre "Café des Westens", scandalizzando i benpensanti della capitale con i suoi atteggiamenti spregiudicati. E con quella coerenza tra vita e scrittura che la caratterizza, Else non solo non esita a confidare al coniuge i suoi mille amori: nella quindicesima lettera essa pretende anche - e ottiene - di pubblicare le sue missive sulla rivista "Der Sturm", fondata appunto dal marito Herwarth Walden e destinata a diventare nel giro di pochi anni l'organo di riferimento dell'espressionismo tedesco.
Nasce così, un po' per caso, sospinto da quella civetteria che contraddistingue il fare letterario di questa intellettuale eccentrica e trasgressiva, un delizioso romanzo epistolare - "Il mio cuore" - che, come indica il sottotitolo, coinvolge "figure e persone realmente esistenti". Poiché questa "commedia in cui tutti hanno una parte" mette giocosamente in scena celebri personaggi del tempo - da Karl Kraus e Kokoschka - molto opportuna risulta la scelta delle curatrici, cui si deve anche un'ottima nota critica (che ha tra l'altro il merito di non calcare esclusivamente sul pedale obbligato della componente ebraica della Lasker-Sch|ler) di corredare "Il mio cuore" con altri scritti - ritratti, lettere, ecc. - che a quegli stessi personaggi fanno riferimento.
Siamo nel 1910. Il tono estatico del passo citato, ma soprattutto l'esotismo dello scenario di fondo restituisce assai bene la cifra lirica della poetessa, che oltre a due volumetti di poesie ha ormai al suo attivo una raccolta di racconti - "Le notti di Tino da Bagdad", 1907 - centrati appunto su di un Oriente lussureggiante di motivi favolistici, programmaticamente contrapposto all'angustia soffocante della metropoli europea. È infatti l'esotismo che, anche se vissuto soltanto ai margini di un luna park berlinese che casualmente ospita una mostra egizia, determina quel guizzo interiore che accende la poesia. In questo senso il passo contiene in nuce un elemento portante nella poetica della Lasker-Sch|ler: la danza alla musulmana consente qui di "serpeggiare fuori" da se stessi, di smarrirsi "verso Tangeri", attingendo ad un mondo di sensazioni primordiali. Ed è attraverso questo "balzar fuori dalla propria pelle" che nasce una scrittura pronta a cogliere non più la realtà obiettiva bensì l'infinita, variopinta gamma della percezione sensoriale. L'estenuarsi della lirica in sensazioni fuggevoli, in eccitamenti indeterminati dei sensi, è certo una caratteristica della poesia europea tra Otto e Novecento. Ma se nell'espressionismo viennese o tedesco prevaleva un dissolversi nell'istante, un cedere senza resistenze al mondo circostante, nella Lasker-Sch|ler si ha invece la sensazione di un abbandono sapientemente guidato. L'io "bacia l'eternità" calandosi nel grande viaggio del "tintinnio dei cuori", tocca i baluardi del giubilo e gli abissi dello sgomento per poi "ritrovare le orme del proprio cuore e la tonalità del proprio sangue". L'anima si dissolve ma recupera una nuova consapevolezza, da cui "sgorgano smeraldi e rubini e zaffiri, anche pietre di luna come sorgenti variopinte". Alla perdita dell'io e della realtà subentra una sorta di esaltazione dell'ego teorizzata fin dal motto iniziale: "Il mio cuore - a nessuno".
Si tratta dunque di una scrittura che si diparte da una posizione di forza ed è di qui che nasce il taglio estroso di questo "romanzo d'amore". All'insegna del "mutamento" e del "prodigio" le lettere sono infatti intessute sull'agile alternarsi di registri, di situazioni, di umori. In sintonia col gruppo del "Blauer Reiter" - che proprio l'anno successivo esordirà con la prima mostra collettiva - la tonalità dominante è quella del "perenne azzurro del cuore". Else procede a sprazzi, accumulando notizie e sensazioni, colori e bisbigli. E intanto narra di tradimenti e pretende fedeltà, fa le bizze e le moine, implora e comanda. In tutto questo c'è anche una vis comica talora irresistibile, tanto più quando entra in campo il gioco dei ruoli sessuali, riprodotto in un sottile, modernissimo oscillare tra passione e ironia, allegria e sgomento.
L'ottica - è inutile dirlo, dato l'ambiente spregiudicato di cui si tratta - non è certo quella dell'emancipazione femminile. Perché all'anima vagabonda è consentita un'identificazione sia con le forme più viscerali della seduzione - e allora via con la danza del ventre o con la simulazione di un io regressivo e bisognoso del suo "salvatore" ("Herwarth, per favore, mettimi tu le virgole...") - sia con la simbologia più assoluta del potere maschile: si veda la lettera ebbra di giubilo in cui Else Lasker-Sch|ler elegge se stessa principe di Tebe, tra l'esultanza di "milioni di milioni di teste coperte da turbanti che gridano e acclamano: Allah, mashah".
La lievità con cui la Sch|ler, grazie ad un'impagabile giocosità dello sguardo, oscilla sovrana da un'identità all'altra, firmando le lettere nei modi più diversi mi pare degna di meditazione. Dirò di più. Dopo anni di ricerche sull'identità femminile calpestata - la presunta sorella di Shakespeare, quella vera di Goethe e di James, e ancora (in corso di stampa) quella di Mozart... - fa bene al cuore leggere la missiva in cui Else ammicca ad un amante geloso calandolo in una scena del "Riccardo III" per poi firmarsi: "Il vostro Shakespeare".
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