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Mi ha ricordato " Viaggio in India” di Pasolini, un libro che mi era piaciuto molto. Amo conoscere le esperienze di persone che hanno vissuto realtà così diverse dalle mie , per confrontarle e meditare. Il Mio amico Abdul è un libro profondo e con continui spunti che inducono a riflettere. L’ autore ha toccato temi che coinvolgono proprio tutti. Lo dovrebbero leggere coloro che vivono con superficialità i sentimenti e non danno mai profondità ai pensieri. Silvia Santi ( Milano)
Viviamo tempi che ci allontanano sempre più dai valori etici fondamentali - amore, amicizia, solidarietà, tolleranza ecc. -, imponendoci schemi e modelli di grossolana massificazione. Per questo motivo ho apprezzato i protagonisti del libro, tesi all’ irriducibile ricerca di qualcosa di trascendente che li porti alla conoscenza di sé stessi e della vita. Con le loro esperienze, anche controverse, non ci danno solo palpitanti emozioni, ma, quello che più conta, la forza di non smettere di credere, magari da illusi, nella poesia e nella profonda bontà dell’ uomo. In uno stile conciso, antiretorico ed immediato, senza mai indulgere alla moda scontata della facile denuncia e dei messaggi gratuiti, l’autore ha saputo creare personaggi autentici e non stereotipi: uomini veri, in sostanza, concepiti e raccontati da un vero uomo. Pietro Vitali ( Milano)
Michele, quasi un alter ego, è una voce che parla con un amico defunto che ha nome Renato, il protagonista, e commenta, con grafia in corsivo, il diario scritto da quest’ultimo su di un vecchio quaderno di scuola: “Copertina nera, carta di pessima qualità”, in cui racconta le sue esperienze, vissute insieme con alcuni amici in un viaggio che lo porta dal maggio francese fino ai Paesi poveri del Sud Est asiatico. Nel corso di questo viaggio si ha l’incontro con la meridionalità, considerata spregiativamente dai Paesi ricchi, dal Nord Europa soprattutto, a partire dai cugini francesi, così che Abdul, l’amico afgano, che dà il titolo al libro, incontrato a Parigi e ritrovato a Bangkok, siamo e sono (come suggerisce la stessa copertina, che ritrae un uomo senza volto) tutti i discriminati della Terra, senza alcuna ragione che lo giustifichi, sia essa il colore della pelle, o la propria fisicità, il censo, la provenienza, la religione, le proprie idee, e tutte le altre possibili ingiustizie che sono e saranno. Ma soprattutto discriminati dalla miseria, mentre vi è una parte del mondo “ricco e sprecone, che esibisce in modo osceno la sua opulenza senza riguardo verso chi soffre”. Si tratta di un protagonista speciale, dunque, che non è colpito dalle bellezze paesaggistiche che gli si aprono davanti, ma i suoi occhi sono attenti a cogliere la sofferenza e le umiliazioni che il nostro egoismo occidentale non vuole o non riesce a vedere. È scomparso l’allegro e ironico piglio che contraddistinse la scrittura di Mangano ne “Le lumache non bevono vino”. Qui vi è tutta la rabbia e la delusione per una viltà collettiva che ci ferisce singolarmente, anche se ci rendiamo conto che, pur tentando, nulla si può fare da soli per contrastare l’avidità dei potenti. Vi sono descrizioni agghiaccianti di povertà ridotta agli estremi, in cui perfino percepirla e soffrirla interiormente ci fa sentire ugualmente in colpa di trovarsi lì diversi da loro. Questo è un segno del particolare missaggio (stimolato da “un inconscio senso di colpa p
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