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Anno edizione: 2010
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
La storia del Dante è toccante, ma chi è il Dante? "...il barbone sarà anca gente strapelaa..., ma non frega gli altri: se un uomo perde tutto e finisce sulla strada è soltanto perché l'è mica stato capace di partecipà alla riffa di Caino, ...". Chi è il Dante ce lo dice un'ottima voce narrante che lo segue come una telecamera e spesso è egli stesso che racconta in prima persona. Un simpatico barbone con "l'orgoglio gnucco dei donchisciotti che non si piegano". Consapevole che la sua vita sta giungendo al termine, a pagina 167 leggiamo il suo commovente e ironico esame di coscienza, veramente una bella pagina di letteratura. Purtroppo chi non conosce il dialetto milanese non potrà gustarsi fino in fondo questo bel romanzo; a mio avviso, poteva essere inserita la traduzione a pie' di pagina dei passi meno comprensibili. Inoltre ci viene detto poco o nulla del periodo in cui il protagonista ha lavorato e vissuto in Argentina, evidentemente una scelta dell'autrice.
Ottimo romanzo con personaggi reali e molto ben definiti. Milano è rappresentata realisticamente nei suoi vari aspetti. "Dante" un personaggio tanto umano e indimenticabile. Le espressioni in lingua milanese, non mi pare siano cosi' invasive....che dire allora del romanesco e del napoletano, troppo spesso utilizzati, sia nella narrativa, che nel cinema e nella TV?
E' vero ci sono troppe espressioni dialettiali, ma a mio avviso nel contesto possono starci. Esilarante in alcuni passaggi e parecchio triste in altri. Non è un capolavoro, ma un libro che si lascia leggere con un certo interesse.
Recensioni
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Protagonista di quest'ultimo libro di Laura Pariani è un barbone, figura sociale (come, più in generale, quella dell'emarginato) non certo assente nella letteratura italiana contemporanea. Senza peraltro dimenticare il cinema, che per esempio recentemente, con La gola del lupo di Pietro Marcello, vincitore dell'ultimo Torino Film Festival, ha elevato a protagonista un ex carcerato (non proprio un barbone, ma certo nemmeno un "regolare") innamorato riamato di una transessuale. Un altro barbone letterario (protagonista, non semplice comparsa) che viene in mente è quello che con uno zingaro e una prostituta romena compone la trilogia (anche teatrale) della Città fragile di Beppe Rosso e Filippo Taricco (Bollati Boringhieri, 2008). È a questo barbone che dobbiamo, per esempio, l'umanissima rivelazione che per chi vive sulla strada il problema non è tanto dove dormire o cosa mangiare, ma piuttosto come cagare.
Nel romanzo di Pariani, Dante, soprannome rivendicato con orgoglio ("Mì son 'l Dante, mica un qualunque sciör Brambilla. Mì pensi, donca ghe son"), è nato nel 1899, l'anno dell'eccidio del crudele monarchico Bava, e muore nel 1969, in piazza Fontana, in contemporanea e quasi a causa della bomba alla Banca dell'Agricoltura. Nelle quattro ultime brevi stagioni della sua vita, delle quali la narrazione dà conto, lo seguiamo nelle sue peregrinazioni e soprattutto nei suoi discorsi e pensieri: un flusso continuo di filastrocche, versi di canzoni, proverbi, cantilene infantili quasi sempre in milanese (un milanese molto filologico e quindi di non facilissima lettura) e di citazioni dotte, dall'Inferno nella traduzione di Carlo Porta a Virgilio ("Una salus victis nullam sperare virtutem"), perché Dante è persona colta, sa di letteratura e di cinema, legge i giornali che raccatta. Nella sua vita precedente ha avuto una libreria antiquaria; di lì i suoi problemi con la giustizia: l'hanno messo dentro per qualche giornaletto scollacciato.
E lo seguiamo anche nei suoi incontri con altri puaritti o comunque marginali: Calandra, lo strascee ex operaio, il lattaio anarchico Parafina, il Gazella, un "senza gambe", il partigiano Lampo (che racconta di armi nascoste) e naturalmente con un cane "magro e spelacchiato con la coda da topo, un orecchio strappato, l'occhio destro velato dalla cataratta, il sinistro umido di un luccicore implorativo", parente stretto della cagna Anarchia ("una bestia malandata di tutte le disgrazie possibili") che compare nel precedente Dio non ama i bambini (Einaudi, 2007): nel bestiario di Pariani non c'è spazio per cani di razza.
Tornando al mondo degli umani, bellissimi i ritratti delle tre zie che hanno allevato il futuro lingera e la rapida descrizione di due ragazze in jeans che masticano gomma "gonfiando palloncini con pensieri da fotoromanzo". Quanto alle riserve espresse sull'eccessivamente trasparente simbolismo delle date che incorniciano la vita del protagonista, mi hanno indotto ad andare a ripescare un vecchio libro tanto straordinario quanto poco noto: Milano, Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi (Feltrinelli, 1960). In appendice alla trattazione storico-sociologica sono raccolte le storie di vita trascritte da Alasia. Cito due brevi brani, l'uno del "Conteverde", raccoglitore di erbe spontanee, l'altro del "Vermisat" che pesca i lombrichi nelle rogge per venderli ai pescatori (alla cui figura si è ispirato un film con la regia di Mario Brenta): "Ci vuole un soggetto per costruire una macchina. Ci vuole un materiale adatto secondo cosa volete costruire. Ma prima di entrare per scrivere un romanzo, bisogna entrare nel giornalismo, mi crede? Bisogna prima cronista, giornalismo, poi il romanzo, cioè tutta la carriera che fanno i romanzieri. È una cosa un po' tetra" (incipit del Conteverde). "C'è quel dannato di un mio mestiere che si lavora nel fango. Andare in giro con il mitra come quelli di via Osoppo, no
osti ian ciapà, che stupit! Gan de rangias: mi vu a ciapà i vermisò (
) La bolletta aguzza il talento, insomma, stremato dalle forze finanziarie mi son deciso di entrare nel fango per raccogliere il pane da mangiare (
) Secondo me l'anarchia è l'idea migliore, perché l'anarchia è l'apice dell'educazione" (Vermisat).
Stupisce che Milano, Corea non sia citato con Jannacci, Testori, Valera, Santucci e altri nelle Tre noticine che in appendice fungono da tabula gratulatoria, ma attesta con la forza della testimonianza "giurata" come l'estro linguistico e una felice e creativa espressività possano essere in qualche modo connaturati o certamente non esclusi fra i "derelitti di una povertà in caduta libera", come suggestivamente li definisce Laura Pariani.
Sempre nelle stesse Noticine c'è un omaggio al dizionario milanese di cui l'autrice si è servita: quello ottocentesco di Cletto Arrighi. Proprio quell'Arrighi, considerato l'"inventore" della Scapigliatura o quantomeno il primo utilizzatore del termine nel titolo del suo La scapigliatura e il 6 febbrajo. Quasi un senhal che invita, nel caso si volesse indagare sulla figura letteraria del barbone, a cercare proprio negli Scapigliati le radici storiche più certe.
Luca Terzolo
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