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Se l’Abruzzo rappresenta un caso «virtuoso» di sviluppo regionale – nel Sud Italia certamente il più riuscito – lo si deve in larghissima misura alle scelte compiute nella Val di Sangro. È qui che in buona sostanza se ne sono decise le sorti, dando corpo a un modello di crescita difficilmente incasellabile entro le consuete letture che si danno della recente storia meridionale e nazionale. È difficile trovare una regione – non solo in Italia – che nel secondo Novecento registri una metamorfosi altrettanto radicale. Da «profondo Sud», oggi l’Abruzzo è la regione meno «meridionale» della penisola: una regione che ormai s’inserisce a pieno titolo tra le aree maggiormente progredite dell’Italia centro-settentrionale. Non a caso è stata la prima a superare, in base ai dati Eurostat, i propri «ritardi strutturali», con la conseguente fuoriuscita dal regime massimo degli aiuti comunitari (Obiettivo 1). È in Val di Sangro che questa «grande trasformazione» ha trovato il suo epicentro. In termini di opzioni industriali qui si sono giocate partite che travalicavano di molto l’ambito locale. Ne sono state investite la politica nazionale e persino quella internazionale. Di contro all’industrializzazione calata «dall’alto», secondo il classico schema dell’intervento straordinario da cui sono scaturite perlopiù «cattedrali nel deserto», in quest’area ha potuto affermarsi, grazie a un potente e consapevole protagonismo di massa, un tipo di sviluppo sostanzialmente rispettoso – per tipologia di fabbriche e modalità d’insediamento – dei valori ambientali, economici e culturali storicamente sedimentatisi nel territorio. Senza un tale spartiacque il destino della regione, e in una certa misura dell’intero Mezzogiorno, sarebbe stato ben diverso da come ci appare oggi. Abbiamo dunque un laboratorio storiografico di straordinario interesse sul piano nazionale e internazionale.
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