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Meteo - Andrea Zanzotto - copertina
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Topinambùr tuffi del giallo/atti festivi improvvisi del giallo/gialli brividi baci/bacilli-baci

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Dettagli

1996
31 agosto 1996
82 p.
9788879892643

Voce della critica


recensione di Spampinato, G., L'Indice 1996, n. 6

Zanzotto pubblica "Meteo" a dieci anni esatti dal suo ultimo libro di poesie, "Idioma", uscito nel maggio del 1986. Non era mai accaduto che una sua raccolta distanziasse la precedente di un intervallo così lungo. Eppure sappiamo che in quest'ultimo decennio il poeta non ha affatto sofferto di "avara vena", ma, al contrario, ha goduto di un momento di prolificità forse addirittura insolita, a cui lui stesso ha accennato più volte, e che è del resto testimoniata da regolari (per quanto semiclandestine) pubblicazioni su riviste, oltre che da un trasparente passo di "Genti", da "Idioma": "sento di / omettere molto, di non poter / n‚ saper dire di più, ma poi mi libero, / ... / Mi libero: e vedo una carta che va / verso nord, nel vento, verso la notte". Per un poeta che non scrive mai fuori da Pieve di Soligo, il nord corrisponde, insieme, alle Dolomiti e a un utopico "altrove". Verso la fine del libro, però, la stessa "carta" continua il suo volo ad altezza più umana, trasformata in un "foglio gualcito" destinato non al filologo, ma allo "spazzino".
Avevamo lasciato su questa immagine la "carta aggrovigliata / e in nessuna serie di valori / accolta" dell'ultima poesia di Zanzotto, libera - come il suo autore - dalla tirannia della scrittura forzata e degli archivi-musei letterari. Dieci anni dopo, il foglio che volava altissimo verso il "nord", o che volteggiava rasoterra lungo le strade della contrada e i prati della vallata, viene per così dire a sbatterci in faccia. Imprudente-impudente, ce lo troviamo sotto gli occhi e le mani ad apertura del nuovo libro, materializzato in "Live", il componimento introduttivo. Autografo, o "scarabocchio" graffiato a mano nel bianco della pagina, esso ci sta davanti con una concretezza proibita ai fatti letterari, come un biglietto che il poeta ci ha passato di suo pugno.
La poesia-live, immessa nel circolo biologico del "Sangue e pus" (già in "Idioma" si diceva che "ogni OPUS è zero più pus"), si manifesta nel "superfluo / superfluente" dilagare delle "vitalbe", parassita vegetale dai mille fiori bianco-grigi, ma anche nel moltiplicarsi delle tragiche-frivole "dirette"-"Balocchi" "eruttate" da un babelico "teleschermo". Vitalbe e dirette rappresentano allora l'incarnazione di una sorta di rete (importa notarlo, vitalistico-cancerosa) che s'abbarbica ai boschi e si propaga nell'etere; ciascuna di esse si impone come un "anarchico" automanifestarsi dell'esistenza e della parola nello stesso tempo. I quattro versi scritti a mano di "Live" sono essi stessi una "diretta" o una "vitalba". Rappresentano, nel loro imporsi senza mediazioni, una sorta di mise en abŒme del libro e dell'ultima poesia di Zanzotto. O meglio, poiché tutto è giocato non in un teatro ma nello spazio virtuale di un onnivoro "teleschermo", queste fragili righe "mozze" sono la mise en display di un corpus poetico imponente e ancora sconosciuto.
L'autore infatti, nell'unica breve nota al testo, precisa che la presente "silloge vuole essere soltanto uno specimen di lavori in corso, che hanno un'estensione molto più ampia". Non si tratta dunque di una vera raccolta da allineare alle precedenti: "Meteo" è piuttosto una "non-raccolta", la visione al microscopio di una cellula vivente della poesia zanzottiana.
Occorre chiarire subito, dunque, che il libro non sta affatto a testimoniare una ritrovata "felicità" (o peggio, "facilità") compositiva, n‚ vuole colmare un silenzio: n‚ l'una n‚ l'altro appartengono, e per lo stesso motivo, all'esperienza poetica ed esistenziale di Zanzotto. I tanti fiori, arbusti, prati che vi compaiono non devono essere letti in senso naturalistico, così come questo paesaggio non ha più molto in comune con quello a cui il poeta "girava le spalle" nella sua raccolta d'esordio. Il paesaggio che oggi appare nel display non è più "aggirabile" proprio perché è virtuale, o virtualmente infinito: "Estate estate, ch'io ti accompagni nel falso / tuo infinito di eterna/appena-sopravvivente / amistà, siccità di toni e ori e clivi, / mostrali a noi per quel che sono - / nel tuo ticchettio docilmente radioattivi" ("Ticchettio, 1").
La "bomba" temuta negli anni sessanta scoppia nell'imprevisto disastro di Cernobyl, in mille deflagrazioni che non cessano di propagarsi, "docilmente" documentate dal ticchettio di un contatore Geiger. La data della poesia, 1986-87, è un'indicazione sufficiente: l'ecatombe si è consumata eppure continua a proliferare in miliardi di silenziose metastasi. Come era già accaduto nella "trilogia", storia e storia naturale si incontrano: questa volta, però, non sono più nemmeno reperibili le faglie-ferite degli "ossari" lasciati dalla guerra nel cuore del "Galateo in Bosco". Nel terzo millennio già in atto l'opus retoricum, il monumento retorico costruito dalla storia e dalla poesia, non si limita ad av-venire, come è sempre stato, "fuori tempo massimo" (emistichio finale appartenente a Retorica su: lo sbandamento, il principio "resistenza", de "La Beltà", e al "prologo" di "Meteo"), a profilarsi cioè come deviato, irrimediabilmente in-utile rispetto a tutto ciò che vive, in senso biologico ed esistenziale. Nel nuovo mondo "eruttato" dal teleschermo la poesia deve adattarsi a consistere "con" la stessa deprivazione dell'esperienza, o della lingua.
Meteo è la parola che intesta il bollettino televisivo sulle condizioni meteorologiche. Il tempo del "templum-tempus" de "La Beltà" è ora schiacciato nella nuda durata dell'evento-clima: grandini, tempeste, piogge acide in cui si registra memoria del Dante infernale o di Pessoa (entrambi puntualmente denunciati nelle autoglosse). Ma non ci si aspetti spessore polistilistico nella lingua di questa "non-raccolta": il linguaggio della nuova poesia sceglie l'allineamento di lingua e dialetto (rappresentato dal quadretto de "La Taresa", una sorta di reincarnazione al femminile del celebre Nino, da una cantilena e da un titolo), mette insieme lingua "alta" e parlata quotidiana, non esita a omologare tracce di latino e di greco a sfumature di cantilena da infanti. La scena della tragedia del compagno ucciso nel rastrellamento (ripresa almeno in "Elegia", in Vocativo, ne "La Beltà" e in "Idioma") ricompare, sotto l'occasione-spinta della guerra in Bosnia, anche in "Meteo". La rivediamo però in una serie di frammenti che non trovano un vero punto di coesione, come "imbambolata" in un "falso movimento" da zapping televisivo. Ci scorre davanti nella duplicazione all'infinito di papaveri, di calabroni-cecchini, orde di "foie barbare" che non possono più segnare nessun destino, incidere nessuna storia, per la buona ragione che dal frammento non è dato uscire.

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Conosci l'autore

Andrea Zanzotto

1921, Pieve di Soligo

Andrea Zanzotto, nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, nel 1921, è stato uno dei grandi poeti del nostro tempo, ma meglio ancora si potrebbe definire uno dei grandi della letteratura del Novecento, in ambito non solo italiano. La sua opera è stata pressoché integralmente pubblicata da Mondadori, fin dal 1951, dunque dal suo primo esordio, avvenuto con la raccolta poetica Dietro il paesaggio. Dopo le verticali accensioni liriche dei primi libri, Zanzotto si è spostato verso una direzione più aperta e "sperimentale", come in La beltà (1968), che ne ha affermato la centralità nel panorama poetico contemporaneo. Altri due momenti importanti della sua opera sono quelli della poesia in dialetto, soprattutto in Filò e nella "trilogia",...

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