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Anno edizione: 2021
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Guardando agli altri del mondo ovale, studiando e osservando chi di rugby nasce, vive e muore, si capisce benissimo come noi italiani – di fronte ai giganti di questo sport – saremo sempre un po’ ciò che il Lussemburgo è nel calcio, un po’ Malta e un po’ le Isole Far Oer, al massimo l’Austria o la Repubblica Ceca. Perché il rugby o lo ama e lo vive un’intera nazione o non è, lo spirito guerriero non si improvvisa, nasce nelle miniere del Galles o nei college inglesi, fra le distese verdi della Scozia o dell’Irlanda, nel midi francese, tra i maori neozelandesi e i deserti australiani, nel Pacifico figiano e samoano come nel profondo del Sudafrica o anche nelle pampas dei Pumas argentini, lì ti accompagna per sempre senza lasciarti più.
La meta più bella della storia (202 pagine, 16 euro), edito da Baldini + Castoldi, non parla affatto – se non per inciso – di noi, dell’Italia e delle sue 32 sconfitte filate nel Sei Nazioni: c’è però un capitolo in cui Marco Pastonesi, giornalista di classe e di stile ma anche ex giocatore di A e di B (di rugby), ex della Gazzetta dello Sport, parla di un altro Marco, Bollesan, un mito dell’ovale nazionale. Parla pure – è vero – di italiani emigrati in Galles che vissero e giocarono a rugby cantando Lands of my fathers anche se il padre era italiano, come Rob Sidoli, ma gli italiani Pastonesi li cita in riferimento al Paese a cui il suo libro è dedicato, quel Galles in cui Bollesan, terza linea genovese, andò a giocare giovanissimo – a 21 anni, nel 1963 – in una selezione per i tempi semiclandestina, la Old Rugby Roma, contro giocatori-minatori appena usciti dal lavoro: «Capisci che lo sono perché, a parte essere grandi e grossi come chi lavora con la propria forza, con le mani, erano neri di carbone».
Non c’è una trama, nella meta più bella, per chi è un tantino avanti negli anni fanno venire il classico groppo alla gola i passaggi sul rugby che in Galles si è sempre giocato in Paradiso, mentre da noi «le partite del Cinque Nazioni si vedevano quasi clandestinamente» e «le telecronache di Paolo Rosi sapevano di pub». È tutto un fiorire di racconti, citazioni d’autore, da Bertrand Russell a Dylan Thomas, da Max Boyce a una pietra miliare della storia del rugby come Gareth Edwards, gallese fino al midollo, a cui è dedicato il sottotitolo del libro (Il rugby, il Galles, Gareth e i suoi fratelli). C’è un excursus sui gallesi illustri che toccarono o comunque ebbero a che vedere con i campi di rugby, fra i più noti Richard Burton, dodicesimo di tredici fratelli, orfano di madre piccolissimo, fotografato da Pastonesi con un’immagine folgorante, un suo pensiero fisso: «Avrei di gran lunga preferito giocare per il Galles all’Arms Park di Cardiff che recitare l’Amleto all’Old Vic», che poi sarebbe il tempio londinese del teatro shakespeariano.
Insomma, un compendio di storia di uno sport, di una nazione orgogliosa e testarda, che nel calcio vivacchia ma che ritiene il pallone rotondo adatto a gente senza fortuna, a Cardiff e nelle lande dai nomi impronunciabili l’orgoglio è giocare a rugby, il massimo in nazionale ma anche come rappresentante dei Dragoni nei British and Irish Lions e nei Barbarians, le sfide epiche con i nemici-rivali di sempre, gli All Blacks di cui la nazionale rossa fu a lungo la bestia nera, ma anche i confronti nella leale e accesissima rivalità sportiva con i mai amati inglesi.
Il Galles, il Paese i cui abitanti, in questo sport terribile e meraviglioso, «hanno un vantaggio su tutti gli altri: ognuno di loro è nato su un campo di rugby o vi è stato concepito». Un’immedesimazione totale, i mediani come Dickie Owen considerati maghi, Gareth Edwards un artista anche se “lillipuziano”, nei ricordi di Bill Samuel, l’insegnante che lo formò nel rugby facendone il più grande mediano di mischia di sempre della squadra in maglia rossa, un ruolo che ne faceva «un’anatra nell’acqua» e che lo portò a conquistare «cinquantatré caps consecutivi dal 1967 al 1974, tredici volte da capitano, il più giovane capitano (aveva vent’anni) della storia. E sempre, per sempre, bandiera, emblema, simbolo».
«C’era Gareth, ma c’erano anche Barry John e Phil Bennett», i suoi fratelli. Bennett, famoso per il discorso da spogliatoio più imitato, dal film Ogni maledetta domenica alle strisce di Andy Capp di Reg Smythe («Guardate cosa hanno fatto questi bastardi al Galles», riferito ai nemici inglesi). E tanti altri personaggi da noi poco famosi ma conosciutissimi, come l’arbitro di rugby gallese Nigel Owens, capace di dominare i templi dell’ovale vincendo i pregiudizi sulla sua omosessualità come Gareth Thomas, uno dei più grandi giocatori. Perché la meta più bella del mondo è anche quella di uno sport che sa essere religione ma che è anche orgoglio, come quello di Thomas, in cui difesa – dopo che aveva subito insulti e aggressioni omofobe – si erano schierati i rugbisti del suo e degli altri Paesi. Perché – parole di Nigel Owens – il rugby «è uno sport speciale, di gentiluomini, che detta le regole, insegna a stare al mondo e impone il rispetto, per gli avversari e per i compagni, per se stessi e per l’arbitro». Come dargli torto?
Recensione di Riccardo Arena
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