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PHAN THI HOAI, Il Messaggero celeste
NGUYEN HUY THIEP, Il generale in pensione
recensione di Mouniama, M., L'Indice 1991, n. 9
Nel 1987, dopo il sesto congresso del partito comunista, nello slancio di apertura che si verifica in Vietnam, gli scrittori vengono invitati a "non curvare la penna". Giovani sconosciuti riescono a pubblicare, e le loro opere suscitano consensi e polemiche. Questa "generazione senza concessioni" non canta più le prodezze e le virtù degli eroi, la lotta del popolo contro le forze straniere ma parlano della difficoltà di esistere in un paese lacerato e isolato, fanno i conti con gli errori politici e il prezzo pagato dagli individui, rivendicano un ritorno alla soggettività. Sono voci un po' stridenti, dissacratorie, scomode. Ora in Italia sono usciti "Il generale in pensione" di Nguyˆn Huy Thiˆp e "Il Messaggero celeste" di Pham Thi Hoài, e dobbiamo ringraziare i traduttori e la curatrice per questa iniziativa.
"Il generale in pensione" è il primo racconto di Nguyˆn Huy Thiˆp, quarant'anni, storico di formazione. Dopo la morte di un generale, il figlio ne narra la storia per difenderne la memoria. Il racconto inizia con il ritorno del padre, dopo una breve esposizione del quadro familiare: Thuƒn, arruolatosi a dodici anni, ha passato la propria vita nelle armi e nelle guerre e, settantenne in pensione, torna dal figlio che quasi non conosce; questi ha studiato all'estero grazie al padre a cui deve tutto, lavora come ingegnere, abita in una villa nella periferia di Hanoi, insieme alla madre, la moglie medico, le due figlie, conducendo una vita organizzata e tranquilla. Il narratore è una brava persona che non si perde in dubbi o analisi, la sua percezione dei rapporti non è problematica, le emozioni che esprime sono convenzionali; si definisce un "conservatore maldestro e imprevidente" e presenta la moglie come una donna "moderna" con cui ha dei rapporti "armoniosi". La narrazione procede senza sollevare sospetti benché alcune precisazioni fatte sempre con questo tono formale in una lingua piana, cauta, dimessa, attenta a raccontare i fatti nella loro obiettività destino leggeri interrogativi, inquietudini quasi impercettibili: l'agiatezza della famiglia proviene in gran parte da un allevamento di cani e si fonda sul lavoro di una coppia - padre e figlia - accolta dopo che un incendio li ha lasciati senza tetto. Il ritorno del padre avviene senza tensioni e senza paure. Al generale non spetta la sorte del "Colonel" Chabert, il personaggio dell'omonimo racconto di Balzac, eroe delle guerre napoleoniche che, tornando al momento della Restaurazione, non solo non viene riconosciuto ma si vede pure negata una vita decorosa e finirà mezzo matto in un ospizio. Il generale, invece, viene accolto come un eroe, venerato e ammirato non solo dalla famiglia, ma dal paese, cioè da una società retta da principi confuciani che in seguito appariranno un po' tarlati. Con la convivenza - basata su una forma di tolleranza reciproca e un'adesione a certi valori comuni che sono poi le condizioni di sopravvivenza materiale e spirituale del gruppo - sorgono piccole incrinature, poi vere crepe che provocano nel padre prima perplessità, dubbi, poi indignazione e dolore senza che ci sia stata da parte dei figli la benché minima intenzione di offenderlo. Se nei rapporti non c'è calore n‚ intimità, esistono però rispetto e attenzione. I dissensi non riguardano nemmeno la sfera del carattere, bensì quella dei valori. Piccoli dettagli della vita quotidiana, che sembrano di ordinaria amministrazione ai figli, turbano man mano il padre, al punto che, sentendosi sempre più estraneo, torna al fronte dove trova la morte. I vietnamiti hanno riconosciuto nell"'uccisione del padre" la messa a morte di una certa rivoluzione. Il padre non può sopravvivere in una società che ha tradito gli ideali per cui ha combattuto, dove i deboli vengono ancora sfruttati e esclusi, dove la dura legge della sopravvivenza ha fatto dimenticare certi valori. Quando scopre che i cani e i maiali vengono nutriti con feti "riciclati" dalla nuora, quest'uomo di guerra non può trattenere l'indignazione e le lacrime davanti al figlio che, pure essendone al corrente, non vi dava nessuna importanza. "Quello che conta è mangiare" dichiara la nuora: quando una cugina si lamenta dell'umiliazione riservata alle donne, e il padre la consola dicendo: "Più grande è il cuore, maggiore è il senso dell'umiliazione", lei li interrompe invitandoli a tavola dove viene servito un pollo con cuori di loto, con una battuta: "sempre di cuore si tratta". I lotofagi, si sa, non hanno memoria. Certi personaggi dei racconti di Nguiˆn Huy Thiˆp sembrano aver perso non solo la memoria ma tutto... fuorché l'istinto di sopravvivenza, come se un cataclisma terribile li avesse travolti e lasciati amputati di una parte del cervello. Però, bisogna pure notare che la nuora dall'agghiacciante senso pratico è anche quella che garantisce una vita decorosa a tutti e che il padre, così integro, appare ogni tanto fuori dal mondo, come sottolinea Bông, il fratellastro: "Ma cosa credi? Migliaia di persone, in questo paese, muoiono ogni giorno nella disgrazia e nella sofferenza; solo i tuoi soldati hanno avuto una vita facile, 'Pam' e bell'e fatto". Sì, forse è meno difficile morire come un eroe che ricostruire un paese, e una vita che abbia senso. È nella scelta stilistica poi, di una lingua scarna, asciutta che risiede la forza e l'efficacia del racconto.
Ne "Il Messaggero celeste" ci sono due gemelle, non sono tutte e due belle come le due famose sorelle Kiˆu e Vƒn della letteratura vietnamita: l'una prospera di tutto quello che l'altra non mette a frutto. Hang cresce con seni sodi e attrae tutti i maschi di Hanoi, va all'università, viene sedotta dal suo professore di francese, s'innammora ricambiata del poeta Ph. ma finisce per sistemarsi con un funzionario del ministero degli esteri che ha una fissazione: la carta igienica. L'altra, Hoài, la narratrice, rifiuta di crescere e, a quattordici anni, con un petto già vizzo si contrae come una lumaca fino a sparire. Nessuno la vede ma lei vede tutto e tutti dal riquadro della finestra e si allena la vista (il suo occhio diventa lente, cannocchiale, telescopio) e il giudizio (si crea un metodo critico che divide gli esseri umani in Homo-A, capaci di amare, e Homo Z, incapaci di amare). È attraverso il suo occhio ipertrofico e quadrato di adolescente insonne, solitaria, lucida che vediamo sfilare la Hanoi 'fin de siècle', ritagliata in venti capitoli che ruotano come i tasselli di un cubo di Rubik. Ogni capitolo forma un tutto a sé e si accosta all'altro senza omogeneità e senza continuità, sperimenta uno stile (dall'autobiografico-lirico alla scrittura automatica) o un genere (dalla favola al dialogo drammatico, al Tombeau), sicché si presenta come un 'exercice de style'. Non c'è niente di esotico - se l'esotico è il dolente, il languido, le lune di primavera, i fiori di pesco, le pagode e i bonzi, le cavallette arrostite, - ma c'è Hanoi con le sue strade affollate di biciclette dove si aggira un uomo senza testa, il suo lago-occhio che risucchia l'invisibile e il segreto, il suo clima a servire da sfondo agli eventi: il caldo soffocante (41|) al funerale dello scrittore del regime che ha passato la seconda metà della vita nel ricordo glorioso della prima, il giorno glaciale della morte di Hon, "il messaggero celeste", la piccina tutta sorrisi che arriva quando nessuno l'aspetta e che se ne va come una morticina perché nessuno la bacia. Il freddo è anche il 'deus ex machina' della passione imprevedibile tra il fratello Hùng, il conformista, carico di diplomi sovietici e l'emarginata di nascita, la meticcia mezza texana, la ballerina 'entraŒneuse', senza nome e senza dimora, l'eterna errante che sarà abbandonata per un posto di responsabilità. Ci sono le piogge torrenziali come quattro oceani che bucano il tetto e risvegliano le liti fra la madre e il padre, così l'acqua si trasforma in lacrime salate, in acido che incide sulla lastra del cervello della narratrice l'immagine della rispettabilità a scapito del comfort e dell'amore. Ci sono i 16 metri quadrati in un quartiere sovraffollato dove vive la famiglia di Hoài, la narratrice-protagonista che ha lo stesso nome dell'autrice, Pham Thi Hoài, trent'anni, archivista all'Istituto di storia, traduttrice di Kafka, Dürrenmatt, Günter Grass. Dal "Tamburo di latta" prende spunto la "nana" del suo "romanzo n. 1", dalla voce stridente, dalla lingua impertinente di "autodidakten" che scompiglia la prosodia classica, una lingua farcita di parole e riferimenti occidentali. C'è poi il Tempio della Letteratura, simboleggiato dalla biblioteca del padre dove Hoài fa le sue prime letture disordinate e bulimiche tra i libri vietnamiti, francesi, russi: una scelta troppo ristretta secondo lei che augura alle generazioni future "un quadro più universale". Il culto del letterato - figura centrale della cultura vietnamita - e la sacralità dello scritto vengono scherniti come riti funerei, attraverso la mania imbalsamatrice e collezionista del padre che accumula libri e sogna di diventare in vecchiaia un prestalibri. Lei invece i libri li divora alla rinfusa e spara giudizi: "Tre quarti non erano che specchietti per allodole...". Il solo a salvarsi è "Don Chisciotte", l'eroe solitario e sognatore. Come in ogni città, c'è una prigione dove si ritrovano, alla fine del romanzo, due avventurieri e un "elemento sospetto". Il fratello maggiore Hac - diventato, dopo una vita di espedienti, padrone del lotto clandestino di Hanoi poi della rete di distribuzione del ghiaccio della tropicale Saigon che vince al gioco, riempiendo i 16 metri quadri familiari di ogni ben di Dio, finché tutto crolla perché Fortuna come arriva se ne va - viene denunciato dalla fidanzata, una "cittadina". Hoàng, un personaggio "esemplare" dei tempi, che ha provato tutto: ex dandy del regime, di quelli che parlano una lingua frammista di gergo universitario, di parole e risate "francofone", ex poeta, ex patito di Victor Hugo, ex marito, ex professore e ex amante della bella Hang che ne rimarrà frigida per tutta la vita e cambierà amanti come fazzoletti, ex padrone dell'impero del ghiaccio di Saigon. Fallito il suo tentativo di diventare un "ex-patriato", varcando la frontiera, finisce dietro le sbarre dove si riposa, mangia e spara aforismi un po' deludenti per uno che ha tanto vissuto: "Nessuno ci potrà liberare dalla straordinaria potenza del denaro", "mangiare innanzitutto!". In prigione, c'è anche il poeta Ph. per aver scritto una poesia ermetica e per aver rivendicato la scrittura come modo di essere al mondo!
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