Milano, Adelphi, 1989, 8vo brossura con sovraccopertina illustrata, pp. 258 (BA, 115)..
Fra i grandi scrittori del nostro secolo, Joseph Roth è quello che più pervicacemente ha saputo tener fede alla figura del narratore. Raccontare storie disparate, intesserle, farle risuonare l’una con l’altra, fare dei propri racconti «una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini»: questo è il sogno che Roth perseguì in tutta la sua vita di scrittore. E lo riconosciamo subito leggendo i suoi racconti riuniti in questo volume, narrazioni sparse nell’arco di più di vent’anni, chiuse alcune nella misura essenziale dell’apologo, dove avvertiamo ogni volta di muoverci all’interno di un unico, ma quanto vasto e variegato mondo.
Dalla febbrile aura espressionista dello Specchio cieco alla pura gioia del nominare, in Aprile, alla snebbiata lucidità mondana del Trionfo della bellezza, sino alla scansione da epos chassidico del Leviatano: molte sono le vie che Roth tenta in questi racconti, e più di una volta si può dire che esse conducano alla terra della perfezione, come nel caso almeno del Capostazione Fallmerayer, della Leggenda del santo bevitore e del Leviatano. Ma, percorrendo di seguito queste pagine, più ancora della compiutezza del singolo testo colpisce la comune linfa che circola in ogni pagina, quasi la continuità fra tutte le storie. Come i coralli per il «mercante di coralli» Nissen Piczenik, protagonista del Leviatano e immagine testamentaria di Roth stesso, qui le singole storie sono di per sé oggetto di un amore inesauribile, vengono osservate e carezzate nella sconcertante varietà delle loro forme, perché tutte ugualmente provengono, tutte sono state nutrite dalle acque profonde, là dove gli oceani comunicano con le paludi dell’Europa centrale. E Roth allora ci appare come il «mercante di coralli» che ogni volta attinge dalla fluidità originaria una storia e la adagia sul tappeto della sua prosa, come uno di quegli esseri nomadi da lui prediletti, che traversavano in ogni direzione, con i loro lievi tesori, l’«unica possibile patria per i senzapatria», l’Impero, prima di scegliere un definitivo esilio.
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