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Dalla lettura di questo libro mi aspettavo una più relistica fotografia ambientale e antopologica di quella parte del sud-est asiatico. Sono perciò rimasto alquanto deluso. Ho trovato piuttosto superficiali e banali gli incontri e le testimonianze riportate (per la maggior parte fatte di colloqui con altri viaggiatori incontrati per strada anziche con i nativi). Inoltre il reportage risulta appesantito da troppe e prolisse citazioni francamente inutili.
E’ un buon libro. Morello non racconta di un viaggio straordinario, non prende grossi rischi, non fa enormi sacrifici e, curiosamente, sembra trovare meno ispirazione proprio la dove i luoghi e le persone sembrerebbero poterne offrire di più: nella parte cinese del viaggio. Ma quello che emoziona non è il resoconto del viaggio, quanto piuttosto il racconto delle incursioni fatte dentro i limiti, le insicurezze, le vergogne di colui che viaggia. L’autore mette via via a fuoco la consapevolezza di non sapersi spingere oltre i limiti ed è proprio lì che diventa eccellente. I luoghi che descrive, in fondo, non sono più irraggiungibili né così lontani come sono stati. Fioriscono i racconti sul Sud-Est asiatico che è ormai percorso in lungo e in largo da orde di “viaggiatori indipendenti”, di backpackers come li si definisce nel linguaggio globale. Ma la ricerca del senso di quel viaggio non è comune e non è esplicita come in questo caso. Il libro è ricco di spunti e, se a volte mi è parso un po’ stucchevole, per alcune citazioni di troppo ed alcune ostentazioni di erudizione, mi ha in fondo lasciato un buon sapore. Che non si cerchi in questo libro lo spessore socio-culturale, storico e analitico di un Terzani, non lo si troverà. Ma ci si troveranno molta attenzione, ricerca ed umanità.
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