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Maurizio Rossi è un narratore finora riservato a pochi fortunati lettori dell'area di Piacenza, nei cui dintorni vive travestito da commesso dell'Archivio di Stato con segreta identità di vignaiolo. Lo incrociai perché eletto a tradurre in latino un suo estroso testo bacchico-cavalleresco per etichette di bottiglia. Cresciuto nella valle del Rosello, modesto corso fra i campi su cui si affacciano I Baggini, Prato Dorano e altre lande di pallida esistenza, Rossi vi ha conosciuto pratiche e tradizioni della vita contadina. Così i suoi primi libri, usciti per Tip.Le.Co. (Poi viene il vento, 1980; Vanno a morire gli eroi, 1981; Racconti piacentini, 1985), fermano arcaico-moderni spicchi rurali con tratti di incantato (qualcuno dixit) "realismo magico". Pagine come, nei ricordati Eroi, L'angelo di mezzanotte, in cui una donna, portata fra la neve nella stalla dove il paese festeggia la vigilia di Natale, vi dà alla luce un bimbo grazie a una straniera che nessuno voleva invitare, si raccomandano per le speciali qualità terapeutico-letterarie di fronte a quelli che sull'etichetta di una grappa data per idonea a lenirli Rossi definisce "momenti così della vita".
Ma presto l'irrequieto archivitiscrittore cambiava passo, e alle soglie del leggendario Duemila elaborava una nuova maniera che progressivamente apriva il tenero lirismo al comico e grottesco. Nei racconti di Mille non più mille (Tip.Le.Co., 1998), "i luoghi del mito", immortalati anche in un inserto fotografico, dolcemente declinano sotto il maglio di una modernità invasiva che li muta in campi da motocross. Ma se fine dev'essere, che almeno sia gaia: e allora ecco Rossi popolarli di conflitti fra gaglioffi che tramano ai danni dell'ambiente e del prossimo, e stralunati goffi come il donchisciottesco Gerbasius, che, pietruzza negli ingranaggi, con il solo improbabile esistere fa saltare affari, strutture, apparecchi (e fiumane di vini) in fantasmagorie di rutilanti catastrofi.
Filamenti onirici e spasso che ora, forti di un sempre più fervido magistero della fantasia, moltiplicano i loro effetti (e le loro virtù curative) nel Mare Padanum del prode editore Lavieri: quattro "cantari" dell'epos che ha per eroi Gerbasius e il suo personale Sancho, Panfilius, vocati al guaio e al disastro, enormi nelle loro piccolezze, fissazioni e incapacità, alle prese con la gestione di una fattoria ai Baggini, loschi traffici pseudo-medianici ai danni dei ricchi anziani dell'ospizio "Requiesco", grandi manovre di nettezza urbana o stragi di polli sospetti d'influenza aviaria.
Ne magnifica la statura l'onomastica latineggiante, che dilaga su vetture, attrezzi, animali e comprimari circostanti, se per esempio le spazzatrici meccaniche Vernula Laboris e Colubra Repens Maculata hanno a mascotte una cagnetta e una gatta dotate dei romani tria nomina, o Romualdo Romito detto Rom Rom, bigliettaio in pensione dell'Omnia Transferre, vive come uno zingaro all'insegna del "carpa die" su due vecchi automezzi interconnessi: un autosnodato a tre assi Viberti degli anni cinquanta e l'Alfa Romeo Macchi 110 a gassogeno di legna Altior Adversis. Non sfugge alla dura lex neanche il postfatore, risucchiato con moglie fra i personaggi, quale autorevole Claudio Dixit.
Le sfolgoranti follie espressionistiche di Rossi, cascata di travolgenti immagini e accensioni metaforiche in una sintassi ai limiti dell'esplosione, hanno un momento privilegiato nel capodanno, notte in cui può avvenire di tutto: come la disfida fra le due superequipaggiate autospazzatrici per la conquista degli euro perduti da frettolosi fruitori di bancomat. Notte natale dello stesso Gerbasius, la ritroviamo "trigliceridizzata" dai fumi dei manicaretti nel racconto Pollaio di Notte, allorché Rom Rom viene miracolosamente guarito da un ferale guaio polmonare (ne scrutava i referti radiologici sfruttando la luna come lavagna luminosa) grazie al poderoso chicchirichì che gli nitrisce Mire Gallus tuffandoglisi giù per i bronchi approfittando di uno sbadiglio. Ma subito la sua villa "a due pullman" viene arpionata e travolta "in traslazione losangata", e poi rapina rerum omnium, dall'inceneritore di polli Centurio, guidato da un inferocito Rotario Flaminio Flemmone, irriso (da che quello stesso magico gallo gli beccò via un occhio) come Pollifemus.
La sistematica ingegneria del surreale dipinge un mondo più vero del vero e approda a un comico liberatorio da superiorità plautina sui dissacrati e ridicoli accidenti umani. L'autentica gioia di lettura si sposa però a partecipe considerazione (con occhi da Terenzio o Virgilio) di quanto tutto sia sempre così delicato e importante, si tratti dei congegni di complessi macchinari, o di quelli più fragili degli animali che ci vivono accanto e delle genti che, con i loro piccoli scopi e disperati amori, animano la survoltata valle del Rosello. Che poi è l'ex fondale di un mare svanito, su cui ora fossili flottarono già serafiche balene.
Alessandro Fo
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