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Anno edizione: 2010
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L'autore supera di gran lunga il racconto, la storia. Amo Roth più per il filone "ebraico".
La storia non è delle più esaltanti in senso di accadimenti, ma il modo in cui lo scrittore scolpisce nella mente di chi legge le sensazioni dei personaggi, le ambientazioni e ogni piccolo contorno è magistrale: viene decritta la piccola foglia che cade dall'albero ed il frusciare di essa, il rumore leggero della pioggia sui vetri, le nostalgie nel mirare un quadro ecc... Leggendo ho respirato l'aria di quei tempi e di quei luoghi. Consigliato a chi vuole "nutrirsi" di carta stampata e non solo leggere. Il voto alto è soprattutto per ciò che lo scrittore mi ha saputo suscitare.
Recensioni
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Il più celebre romanzo di Joseph Roth, già riproposto nel 2009 da Barbès Editore nella traduzione di Alberto Schiavone, è ora disponibile nelle altrettanto efficaci traduzioni di C. Pischeri (Baldini Castoldi Dalai, 2010) e in quella di Sara Cortesia per la Newton Compton che, scaduti i diritti d'autore, la presenta nella collana dei tascabili "Gte", accanto a Fuga senza fine (1927), La cripta dei cappuccini (1938) e La leggenda del Santo bevitore (1939). Curatore di tutte e quattro le opere, il germanista Giorgio Manacorda, autore dei saggi introduttivi a ognuna di esse e di quello dedicato all'opera complessiva dell'autore galiziano. A sua volta, Giunti ne ripubblica, sempre in questi primi mesi del 2010, l'intramontabile prima traduzione italiana di Renato Poggioli del 1935 con un'introduzione di Marino Freschi.
La marcia di Radetzky venne pubblicato originariamente nel 1932 come romanzo d'appendice sulla "Frankfurter Zeitung", cui Roth collaborava dal 1923 anche come Kulturpublizist e inviato. Roth, nato nel 1894 nella Galizia polacca appartenente all'impero austro-ungarico, a pochi mesi dalla presa del potere di Hitler, scrisse questo elegiaco canto funebre alla compagine sovranazionale che aveva politicamente avversato in gioventù ma che, nello spaesamento prenazista dell'epoca, gli sembrava essere stato l'ultimo baluardo alla barbarie impadronitasi dell'Europa.
Un baluardo che però, nella propria incapacità di rinnovarsi, nel proprio immobilismo, aveva tutti i germi dell'autodistruzione. I rappresentanti delle tre generazioni dei Trotta, protagonisti del romanzo, sentono che la considerazione loro tributata per i meriti del primo di essi, l'eroe di Solferino, che aveva casualmente salvato la vita all'imperatore Francesco Giuseppe, non corrisponde alla percezione che hanno di sé, improntata al senso di inadeguatezza. Tutti cercano nella generazione precedente la forza che sentono di non avere, inconsapevolmente posseduta solo dal padre dell'eroe di Solferino, semplice gendarme di campagna sloveno, la cui ancora intatta identità slava nulla aveva della futura percezione di imminente dissoluzione, dolorosamente presente all'ultimo dei discendenti, Carl Joseph, destinato a essere spazzato via dalla Grande guerra.
La cifra del valore letterario di Joseph Roth è riconducibile alla sua capacità, scrisse Ladislao Mittner, di "trasformare il racconto in un'informazione molto precisa e concreta, (
) in un colloquio umanamente illuminatore ed umanamente commosso con il suo lettore". Come ha ricostruito Renate Lunzer, l'italianista viennese studiosa dei rapporti culturali tra l'Austria e l'Italia, fu Stefan Zweig (l'amico che lo aiutò anche economicamente negli anni del disperato esilio parigino, conclusosi con la morte da alcolizzato nel 1939) a proporre, attraverso il suo traduttore Enrico Rocca, Joseph Roth all'attenzione del mercato editoriale italiano nel 1930. Probabilmente anche per il clima culturale improntato a un'imbalsamata retorica risorgimentale, le opere di Roth, seppur tradotte, vennero però generalmente ignorate in Italia per vari decenni.
Persino la grande germanista Lavinia Mazzuchetti, traduttrice e amica di Thomas Mann, sconsigliò alla Mondadori negli anni quaranta La cripta dei cappuccini, scrivendo: "Questi tipi di sloveni devoti all'Austria, la vita nell'esercito, tutto è terribilmente passato e trapassato". Fu solo a partire dall'inizio degli anni settanta che l'opera di Joseph Roth venne rivalutata grazie agli studi dedicatigli da Claudio Magris che, specie in Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale del 1971, opera scritta non solo a tavolino, ma anche attraverso numerosi viaggi in quella parte d'Europa, allora oltre cortina, ne evidenziò il legame con l'universo ebraico dello shtetl, familiare agli autori ebrei di lingua tedesca delle zone di confine dell'impero, ma snobbato o poco conosciuto da parte di quelli viennesi come Stefan Zweig e Arthur Schnitzler. Nell'opera di Roth, accanto all'affascinante, perfetta rievocazione delle atmosfere asburgiche, troviamo l'espressione della simbiosi tra Austriazität e Ostjudentum (ebraismo europeo-orientale), l'adesione leale alla dimensione sovranazionale imperialregia dei sudditi ebrei dell'impero, che li portava a menzionare Francesco Giuseppe nei loro libri di preghiere, affinché Dio vegliasse sulla salute del Landesvater, padre della patria, garante della loro legittimazione tra le altre componenti dell'impero, assai meno favorevoli alla sua conservazione. Giorgio Kurschinski
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