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Quando Leopardi annunciò all’editore Stella di Milano in una lettere del 9 dicembre 1825, di aver terminato di volgere in volgare il Manuale di Epitteto – il liberto greco fondatore a Roma, durante l’età imperiale, di una scuola di filosofia stoica –, l’opera godeva già di una fama notevole ed era ben nota ai dotti e alle persone di cultura. Ad essa infatti erano stati dedicati contributi filologici di notevole rilievo, specialmente in Inghilterra e in Germania, tra Sei e Settecento, mentre in Italia era stata tradotta più volte: dal Salvini (1733), dal Pagnini (1795), dal Giovio (1804), dal Lapi (1812). Leopardi dunque non “scoprì” né “rivalutò” il Manuale; piuttosto, meglio dei suoi predecessori, riuscì a rendere l’arduo greco dell’originale in una forma sciolta, piana, finemente modellata, che ancor oggi si presta a una lettura per nulla faticosa o impacciata. Mentre al contempo conferì all’opera – funzionale ad un progetto filosofico che appare splendidamente attuato nelle contemporanee Operette morali – rilievo e attualità del tutto nuove, senza per questo esercitare violenza alcuna al significato del Manuale, pienamente congeniale, anzi, in questo periodo, alla riflessione teorica del poeta. Redatto «in un mezzo mese (…) con tutto l’amore e lo studio possibile», questo «lavoruccio» risultò assai caro al Leopardi, sia per il contenuto morale e filosofico, sia per la riuscita stilistica, particolarmente felice. Ma il poeta non ebbe mai la soddisfazione di vederlo pubblicato: la prima edizione infatti, curata da Antonio Ranieri, risale solo al 1854, otto anni dopo la sua morte.
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