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Non appena si finisce di leggere questo romanzo di Francesco Nicolino, viene da interrogarsi sul “perché è stato”, “cosa è stato” e “cosa è”. Il riferimento è all’onorata società calabrese, la ‘ndrangheta, i cui componenti non chiamano così, come non viene mai pronunciato il nome mafia. Questo romanzo, tuttavia, non è un saggio sulla ‘ndrangheta, Nicolino è voluto andare oltre a una semplice cronistoria di accadimenti, perché leggere una serie di cronache non informa veramente su cosa sia una società insidiata dal fenomeno mafioso. Quindi, per fa capire, per entrare nelle coscienze dei lettori, l’autore preferisce far parlare i vari personaggi, loro, i veri protagonisti di un mondo efferato di vendette e violenze, in un terra dove la terra stessa non deve dare frutti e consentire a gente buona e umile di vivere nella propria semplicità. Così Nina si narra. Un io narrante inserito abilmente tra i capitoli, il filo conduttore del romanzo. Nina è la moglie di un affiliato all’onorata società, Michele. È una delle tante donne di mafia, che nel loro silenzio soffrono e pregano, piangono, temono. Nell’onorata società non c’è posto per le donne, che devono essere fedeli custodi di segreti atroci. “Ho cominciato a vivere con un assassino: quando mi toccava e mi parlava sentivo la morte attaccarsi alla pelle, la respiravo in ogni istante e in ogni angolo” dice Nina. Lei non ha scelta, non ha avuto scelta. “Della mia felicità non importava a nessuno” dice ancora Nina. Lei è triste. Vorrebbe fuggire, non ama Michele e non è da lui amata: vive come fosse in una gabbia. Lo stesso paese, Pianosangro, è una gabbia, in cui tutti devono sottostare a Don Mico. Lui ha potere di vita e di morte, ogni decisione spetta a lui. Viene eletto sindaco: l’infiltrazione mafiosa anche nello Stato è compiuta. Nicolino tratteggia abilmente i vari aspetti dell’onorata società mediante i suoi personaggi e le loro vicende, mediante soprattutto Nina. Perché è lei a soffrire anche verso quell’uomo con
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