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Anno edizione: 2022
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Un romanzo sul cupio dissolvi di due uomini prepotenti, sulla vendetta che non ripristina giustizia, sul ciclo inesorabile e ripetitivo dell'oppressione di una provincia emarginata che non è altro che l'immensa, isolata provincia in cui tutti viviamo.
«Nel buio non riusciva a vedere buche, radici e rocce che spuntavano dal terreno. Cadde per tre volte con la faccia nel fango, e per tre volte si rialzò per continuare a correre, col vestito lacero e ricoperto di terra, il viso nero e incrostato di fango e sangue.»
«Mi interessano sempre gli ultimi della fila. Quelli che a scuola stavano in fondo, io ero in fondo. Quelli un po’ invisibili, che non vengono trattati dai media o dagli interessi politici e culturali. Quelli un po’ dimenticati.» - Antonio Manzini
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seguo Manzini da sempre, ho trovato questo libro quasi per caso. Ho iniziato a leggere pensando di veder spuntare RS da dietro l'angolo. Un affresco, dei tanti paesi della nostra Italia, con uno stile che lo avvicina ai grandi classici del neorealismo francese. Colpisce la descrizione della disabilità di Mario, e del rapporto con il padre. Ho scoperto una faccia di AM che non mi era nota. Consigliatissimo
Manzini non è solo il creatore di Rocco Schiavone, è un signor scrittore, non un novelliere che ha inventato un personaggio fortunato, casuale ma che funziona, tutt’altro, è un autore, un romanziere completo, in verità è un bravo scrittore dotato di una penna fluida, celere, descrittiva, non è la prima volta che dà prova di sé con altri testi diversi da quelli seriali che gli hanno conferito notorietà. Le sue pagine scorrono veloci, quanto racconta attira, lega, cattura attenzione ed interesse, a fine lettura offre spunti notevoli di riflessione. Qui riduce la location di azione, dalla piccola città di Aosta si passa ad un piccolo borgo appenninico, che non comporta una diminuito di quanto di più deleterio insito nell’animo umano: l’angheria, lo strapotere, la prepotenza e i soprusi del più forte sul più debole. Sempre queste compaiono in un consorzio umano; trattandosi di zona di boschi, di monti e valli impervie, è anche zona di lupi, e qualcuno si immedesima travalicando il ruolo, diviene homo hominis lupus. Il romanzo in sé è una forma neanche tanto velata di denuncia sociale, si descrive nei particolari un microcosmo dove i personaggi sono formichine che replicano in piccolo quanto di più eclatante si rispecchia pari pari nel macrocosmo. Non è un titolo a caso, indica una pianta invadente, che si diffonde con rapidità, soffoca quanti intralciano il suo espandersi. L’autore intende rimarcare quanto sia difficile per chiunque cambiare, evolversi, divenire differentemente, e in meglio. Il suo più che un romanzo è un atto di sconforto, una constatazione letteraria di contraddizioni, incongruenze e controsensi insite nel nostro essere umani, radicate in profondità come e più di una mala erba, assai difficili da sradicare. A tale scopo usiamo diserbanti, al limite il napalm, ma con il veleno l’uomo appesta tutto, anche sé stesso, non è rimedio naturale, anzi, è peggiore della mala erba.
Mai letto niente di Manzini, al quale debbo la mia stima incondizionata per l'incredibile parabola di vita (vera) che lo ha portato, con grandissimo merito, alla sospirata riconoscenza letteraria. Ho dunque approcciato con spuria curiosità questo romanzo (evitando, così, scientemente il mainstream del suo più famoso personaggio narrativo). Ebbene, ho trovato la prosa molto fruibile e certo densa di concetti patologici (nell'accezione filosofica del termine), ma nel complesso non sono rimasto entusiasta di quest'opera, la cui lunga gestazione, dichiarata in conclusione dal suo stesso autore, può forse svelare la linea non certo retta che segue il racconto. Temi ben noti e, ahimè, troppo diffusi in questa nostra realtà, vengono esasperati finché perdono la loro connotazione attuale per trasmutarsi in una barocca finzione artistica, a scapito delle emozioni. Ovviamente questa è la mia idea.
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