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Non è che Clegg inventi nulla di nuovo, non è un romanzo che stravolge le regole della letteratura, eppure ha prodotto un libro necessario. Necessario per l'umanità del dolore e nel dolore. Spettacolare poi il "montaggio" stesso della storia. Un libro che il dolore lo racconta. E questo (talvolta) è necessario.
La casa di June va a fuoco sotto i suoi occhi, il giorno prima del matrimonio di sua figlia, con dentro tutta la sua vita, coloro che ama. Comincia con la fine, il primo romanzo di Bill Clegg, già celebre per il suo memoir "Ritratto di un tossico da giovane"; l'autore ci sorprende e commuove con una prova straordinaria, per sensibilità e originalità. Raro, se non unico, il pregio di saper presentare la faccia tragica dell'esistere con una prosa lirica e quasi romantica, mitigando il peggiore dei mali con un disincanto che da disperato si fa via via più dignitoso, fin quasi ad abbracciare un perdono, per se stessi e per gli altri, razionalmente impensabile, ma addirittura necessario negli umani travagli affettivi. Il tema del perdono si fa primario, e partendo dalla pietosa visione di un'umanità fallace e malinconicamente precaria e annaspante, la colpa è sminuita fino a evaporare, come la marachella del bambino che, irresponsabile per il suo inesperto agire nel mondo, può meritarsi solo un rimprovero indulgente ma mai il marchio della colpa... I personaggi raccontano la tragedia dai loro diversi punti di vista, ma il dolore è così immane, sia per vittima che carnefice, che fuoriposto è la censura, rimane lo smarrimento del rammarico, della nostalgia e della compassione per se stessi e per gli altri.
Se devo giudicare Bill Clegg da questo romanzo (unica sua opera letta) posso concludere così: non è un gran che come scrittore, però è certamente un bel furbacchione. E infatti ha messo su pagina una scrittura carina, pulitina, né troppo "alta", né troppo "bassa"; ha inventato una storiella strappalacrime stile "Harmony"; ha pensato bene, per risparmiarsi un po' di fatica, di strutturare il romanzo per brevi capitoli, affidati a varie voci narranti, che raccontano ciascuna una parte di storia (solo che sono tutte uguali: non un coro, perciò, bensì un cantante che prova a variare registri, senza peraltro mai riuscirci); una abbondante spruzzatina di political correctness (inutile a fini narrativi, molto a fini di botteghino), et voilà eccoti sfornato il tipico prodotto da forno librario facilmente digeribile e ad alto contenuto di calorie mainstream (inversamente proporzionali, di solito, al valore artistico). Tutti i personaggi, chi prima chi dopo, hanno fatto qualcosa di stupido, sbagliato o moralmente riprovevole (sempre a danno altrui), epperò, poverini, soffrono tanto, e quindi vanno perdonati e riabbracciati nel seno dell'umanità accogliente. Niente reprobi, niente outsiders, niente maledetti... sembra proprio questo il mood esistenziale di Clegg (e di tanti altri suoi colleghi contemporanei): potete fare qualsiasi sciocchezza, e non preoccupatevi, tutto s'aggiusta... Consolatorio, ma che noia. ...lettura evitabilissima.
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