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Il secondo diario della protagonista de I signori preferiscono le bionde.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Meno divertente rispetto al romanzo precedente "I signori preferiscono le bionde", ma lo consiglio a chi cerca una lettura leggera per passare qualche allegra.
Recensioni
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Più della grande letteratura, spesso è la piccola ad aggiungere qualcosa al mondo, mentre ne vuole essere lo specchio: ed è il caso, appunto, di questi due libri di Anita Loos: che volevano essere «commedia americana» (a rovescio della «tragedia» che scrittori come Anderson e Dreiser già campivano, preparando l'avvento dei Faulkner, Hemingway, Steinbeck, Caldwell, Cain), satira di un tipo umano e di un costume; e finivano invece col creare e diffondere quel tipo umano, quel costume, quella commedia. Il tipo era quello della donna «svampita»: sicura soltanto del suo essere bionda, vorace di una indefinita e ignota felicità (indefinita e ignota al punto da non riconoscerla al momento che vi si imbatteva), disattenta, svagata, distratta; e calamitava a sé una maschilità che si potrebbe dire d'apparenza, non priva di complessi e anzi con complessi, per così dire, a fior di pelle. E ne veniva una commedia di costume che non la catarsi suscitava, ma la mimesi. Tanto cinema visse di quella rendita (fino al mito di Marylin Monroe); e la vita vi si adeguò. Nella prefazione a una delle tante edizioni (del 1963), Anita Loos racconta di come I signori preferiscono le bionde è nato, del successo che immediatamente ebbe e che continuò ad avere (fino a una traduzione in russo e ad una interpretazione marxista che pare non le dispiaccia), della lettura che ne fece Joyce (stava per perdere la vista, e se la risparmiava per seguire su Harper's Bazaar le puntate del romanzo: e forse non erano estranee alla sua attenzione le cadute ortografiche e gli sfagli grammaticali), del giudizio di Santayana. Giudizio che oggi, con più accentuata celia, si può forse sottoscrivere: «il miglior libro di filosofia scritto da un americano».
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