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recensione di Piano, S., L'Indice 1988, n. 9
Certamente i Candela dell'India centrale non sarebbero passati con pieno diritto alla storia se non avessero patrocinato con tanta continuità e lungimiranza le arti e le lettere. Si tratta infatti di una piccola dinastia di venti re dell'India centrale (Jejakabhukti od. Bundelkhand) che vantavano l'appartenenza alla stirpe "lunare" dei principi rajput ma che forse discendevano invece da qualche condottiero aborigeno (Gond?) promosso al rango della razza guerriera degli ksatriya in seguito alle sue conquiste. Tale dinastia fece la sua comparsa all'inizio del IX secolo e si esaurì nel sec. XIV (con l'annessione del suo territorio al sultanato di Delhi) dopo aver raggiunto l'apogeo di una fugace grandezza fra il sec. X e l'XI. Sono testimonianze immortali di questo pur breve periodo di splendore i grandi templi indù e jaina di Khajuraho (non lontano dalla capitale dei Candela la fortezza di Kalañjara) e un'opera letteraria il Prabodhacandrodaya di Krsnamisra considerato il capolavoro del teatro allegorico indiano; di tale opera è stata recentemente pubblicata la prima traduzione integrale in lingua italiana dalla casa editrice Paideia con il titolo "La luna chiara della conoscenza".
La curatrice dell'opera Agata Sannino Pellegrini si destreggia con ammirevole disinvoltura nei meandri spesso tortuosi di una vicenda che ha come protagonista il re Discernimento, come antagonista il Grande-Errore e come trionfatore finale il figlio del re Luce-di-Conoscenza nato dall'unione di lui con una sposa troppo a lungo trascurata, Upanisad. Il dramma che allude chiaramente al trionfo del re Kirtivarman) sul suo nemico Karna di Cedi ottenuto grazie ai buoni uffici dell'amico Gopala, intende esaltare e far conoscere la dottrina dell'Advaita-Vedanta (uno dei vertici del pensiero religioso-filosofico dell'India) sottoponendo nello stesso tempo a una satira talvolta feroce le altre scuole come quella buddhista quella jaina e quella dei Kapalika alle quali si può essere piacevolmente conquistati dall'abbraccio di una Fede tanto proteiforme quanto procace. Il dramma la cui lettura è agevolata da un glossario sufficientemente ampio (pp. 145-165) e da una serie di precise note illustrative, è di tipo nataka (commedia eroica) ma non vi mancano intrecci amorosi; la vicenda che si sviluppa in sei atti è una limpida allegoria della discesa dell'anima nel ciclo delle vite terrene, della sua vittoria sull'ignoranza e della sua finale liberazione. Il "gusto estetico" (rasa) dominante è quello della serenità e della pace interiore (s nta) esso ben si adatta all'atmosfera rarefatta della dottrina Advaita che appare pervasa da una vena d'intensa devozione visnuita e che può essere accostata in modo facile e naturale con la lettura di pagine tutte da meditare per il loro alto contenuto di verità.
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