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recensione di D'Elia, G., L'Indice 1997, n. 8
Non credo sia il velo dell'amicizia a farmi dire che questo romanzo di Claudio Piersanti, "Luisa e il silenzio", risuona nel lettore come una specie di prosecuzione ideale di uno dei racconti più famosi di Tolstoj, "La morte di Ivan Il'icÿ". La malattia e la morte al tempo degli uffici e della televisione, di una vita grigia d'impiegata che si ammala e decide di non curarsi e di lasciarsi morire, come un animale in disparte, solo piena della sua coscienza che si va formando nel distacco anticipato dal mondo. Là, in Tolstoj, il giovane servo sollevava il dolore del padrone, ritrovando, con un po' di sollievo dal male che era in grado di procurare, la funzione di una socialità naturale che accompagna a morire. Qua, la Luisa di Piersanti è senza legame, e un'orgogliosa solitudine della morte è proprio la sua testimonianza di esistenza, di riappropriazione del morire stesso come ultima forma di libertà.
Piersanti, come ogni vero scrittore, sceglie uno stile impostogli dalla lingua e dal tema che si trova per le mani. La grande zona grigia dei rientri dal lavoro, degli appartamenti, delle levatacce mattutine tra auto in coda e zone industriali, insomma tutto il tran tran della similvita metropolitana, la paratassi della vita tra le merci, la coordinazione allineante delle azioni e delle frasi urbane, tutto quanto racconta una storia comune e esemplare. L'anonimia, il valore astratto del lavoro fatto bene, i conti della fabbrica di giocattoli: allegorie dell'assurdo e dello spreco, dell'incoscienza subordinata.
Eppure, l'insensato contemporaneo giunge a coscienza attraverso la morte in atto di Luisa, una sessantenne divorziata e sola, impiegata in una ditta del nord, o del centro-nord. Ma tutto serve a Piersanti per una dilatazione allegorica ulteriore, dove la socialità della morte sia denunciata come qualcosa di violento e invisibile (altro che "pulp" da effetti speciali), di mostruoso, in quanto mera socializzazione burocratica dei corpi malati, illusione della cura, menzogna dell'essere. Il libero indiretto e il monologo interiore sono resi con tocco documentaristico, ed è sempre un esterno che incide sull'interno le sue tracce. Walter, Renata, il vecchio padrone, sono personaggi di contorno che accentuano la solitudine di Luisa. Le sue meditazioni riguardano il mondo esterno nei suoi confronti, il senso di una sconfitta lucida e serena, di una disperazione con sentimenti e memorie che si appannano, epigrammi fulminanti contro le illusioni religiose, altrettanto fulminanti preghiere, sentenze su sensazioni sgradevoli e piacevoli, costante fondo d'ottimismo sensibile e agnostico sopravvissuto dall'infanzia, quando l'anarchia dei sensi domina sul principio di realtà.
Luisa, che ha come nemico sociale i ragazzi, i giovani schiamazzanti dell'Apocalisse da bar e motociclette, cerca un silenzio del corpo come protesta radicale di sottrazione dalla storia. Lo trova nella malattia e nella morte, dove il silenzio comincia a parlare. E le parole del silenzio sono il lunghissimo piano sequenza mentale di Luisa, che copre interamente il romanzo.
Ho letto solo un altro libro così bello e importante, in questo periodo, ed è "Mania" di Del Giudice. Come Daniele Del Giudice, anche Piersanti sceglie il tema del limite e dell'estremo. Apparentemente, sono diversissimi i modi di approdarvi: quanto Piersanti riduce l'immaginario al sensibile, tanto Del Giudice fa il contrario. Ma l'esplorazione del sentire è il loro scopo. La terza persona o la prima (nei racconti di Del Giudice) servono come schermi dell'allucinazione. Del Giudice, per parlare della vita, parla della macchina tecnologica. Piersanti, del corpo vivo, per parlare della società alla fine della storia.
La lingua da catalogo, media, grigia, mimetica sul vissuto, identifica se stessa con la comunità e la persona: vita scarna e frase breve, azioni d'abitudine e coordinate alla principale, retorica della paratassi a coprire una vita allineata. Eppure, lo scrittore, e forse più il poeta nascosto in ogni narratore, prendono nella prosodia il sopravvento, e fanno di questa morte raccontata un compimento della parola nel suo silenzio, che arriva con la scansione inconfondibile della falsa prosa, della poesia della frase: "come la voragine nera dei vecchi / film quando si piomba nel passato / o dentro le fauci di una stella morta, / o le montagne russe quando ti manca il fiato". Il tutto non esente da un riso leopardiano, anche ateo, beffardo, che trova nelle pagine del cimitero visitato per comprarsi un loculo, una delle vette graffianti di questo libro scritto benissimo, senza sbavature espressionistiche, che ricorda la morte per storia raccontandola come qualcosa di intollerabile e artificiale, di fronte alla fine delle utopie storiche, facendo indovinare una poesia della morte naturale, che, come in Tolstoj, dichiari il proprio "è morta la morte".
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