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recensione di Turroni, G., L'Indice 1994, n. 4
L'autrice di questo studio sulla cultura araba è direttrice della cattedra di lingue e letterature orientali dell'università di Bucarest. Nadia Anghelescu si propone di dare con questo libro un contributo alla ricerca antropologica, partendo dalla convinzione che l'atteggiamento degli arabi nei confronti della loro lingua possa fornire utili elementi per la comprensione della mentalità e della cultura araba. Da questa prospettiva metodologica, l'autrice polemizza con quegli studiosi - tra cui cita E. Shouby e R. Patai - per i quali sarebbe invece la lingua stessa a esercitare un'influenza determinante sulla mentalità dei parlanti. È da notare tra l'altro come questi studiosi si servano di tale principio per dimostrare l'inferiorità della civiltà araba rispetto a quella occidentale. Così l'autrice riferisce che secondo Patai "l'indifferenza nei confronti del tempo, dell'esatta collocazione degli avvenimenti, sarebbe dovuta ...'all'imprecisione delle forme verbali, che non corrispondono alle forme temporali delle lingue indeuropee'". Secondo Anghelescu, per l'analisi antropologica non è dunque significativa la lingua in se, ma il rapporto tra la lingua e i suoi utenti. L'autrice individua un triplice campo d'indagine: la produzione letteraria, la scienza linguistica araba e l'atteggiamento degli arabi in generale verso la loro lingua. Questi punti costituiscono l'oggetto dei tre capitoli centrali del libro.
Un'importante precisazione da fare è che il libro prende in esame la lingua araba letteraria, che non è l'unica lingua araba esistente, in quanto il mondo arabo è interessato da quel particolare fenomeno che gli studiosi occidentali contemporanei hanno indicato con il termine "diglossia". Secondo questi studiosi esistono due varianti linguistiche: una "superiore", altamente codificata, veicolo dell'espressione scritta, oltre che di quella orale elevata; l'altra "inferiore", più semplice da un punto di vista grammaticale, usata nel linguaggio quotidiano; si tratta dei dialetti, i quali variano in maniera rilevante in relazione alle zone geografiche e ai gruppi di parlanti. Significativo per l'autrice è il primo tipo di lingua, in virtù della sua importanza nella definizione della stessa identità araba, in virtù cioè del suo "ruolo unificatore". Il criterio linguistico è infatti il migliore per circoscrivere l'estensione del termine "arabo", in quanto ciò che accomuna la varietà di abitanti dell'area geografica compresa tra il Marocco e l'Iraq e tra la Siria e l'Arabia Saudita è dato dal comune patrimonio linguistico e letterario.
Si può così comprendere meglio l'importanza che la lingua e la letteratura hanno per gli arabi, e in particolar modo la "mitizzazione" di ciò che Anghelescu definisce i "monumenti" della cultura e della lingua araba: il Corano e la poesia arcaica o preislamica. A questi "monumenti" si collegano gli inizi della cultura e della lingua araba, ed è importante segnalare che entrambi furono fissati per iscritto dopo un periodo di circolazione orale, e precisamente nell'VIII secolo. La poesia "preislamica" o "arcaica" - come si tende oggi a chiamarla, per evitare una collocazione temporale più precisa - è esaltata dalla critica araba tradizionale non tanto per i contenuti, peraltro alquanto ripetitivi, bensì per la sua musicalità. I poeti arabi preislamici componevano sulla base di un vasto repertorio di formule appartenente alla collettività; questa caratteristica contribuisce secondo l'autrice a suffragare la tesi dell'esistenza di una 'koinŠ' araba sovradialettale, un terreno comune sul quale i portavoce delle diverse tribù si incontravano. È proprio di questo stile ritmato e rimato, ricco di espressioni formulari, che si servirà Maometto per esprimere il suo messaggio profetico: la lingua del Corano, ritenuta dai musulmani la parola stessa di Allah, venne compresa non soltanto dagli abitanti di Mecca e Medina, ma da tutte le tribù che popolavano al tempo la penisola arabica. Per gli arabi infatti il Corano è 'la Recitazione' per eccellenza: 'al-Qurtan'.
Questo fatto soprattutto ha impedito e impedisce tuttora agli arabi di abbandonare o di trasformare la lingua delle loro origini: una lingua che viene appresa a scuola, che non fa parte del linguaggio quotidiano, se si fa eccezione per le formule rituali che accompagnano i vari momenti della giornata. Oggi tuttavia si è sviluppato un arabo intermedio tra quello "alto" e i dialetti, che, presentandosi con una struttura semplificata, cerca di fare i conti con la modernità e con le sue esigenze di espressione: è l'arabo dei giornali e della televisione, che viene adottato - con la riduzione dell'analfabetismo e la diffusione dei mezzi di comunicazione - da un numero sempre crescente di persone. Anghelescu critica il modello diglottico, in quanto non è più in grado di rendere conto di una situazione linguistica complicata dall'affermarsi dell'arabo "medio", inoltre, secondo l'autrice, questo modello è inadeguato anche in relazione alla pluralità dei livelli linguistici all'interno dei singoli dialetti. Infatti il linguaggio ricercato di un intellettuale si situa a un altro livello rispetto a quello di un semplice analfabeta.
Nel mare di osservazioni e di utilissime informazioni che ci fornisce il libro, una curiosità riguarda l'adozione da parte degli arabi di parole straniere e il sistema di "arabizzazione" di tali parole; attraverso il loro inserimento in uno schema arabo, le parole straniere perdono il loro aspetto originario e non sono più riconoscibili da parte dei non arabofoni: cosi, il plurale di 'film' diventa 'aflƒm'.
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