(Modena 1505 - Chiavenna, Sondrio, 1571) letterato italiano. Condannato in contumacia dall’Inquisizione (1556) sotto accusa di eresia, forse anche in seguito all’aspra polemica sostenuta con A. Caro (1553), riparò all’estero. Fra le sue opere si ricordano un rigoroso commento al Canzoniere di Petrarca (postumo, 1582) e un volgarizzamento della Poetica di Aristotele che fece testo nei dibattiti letterari del secolo («Poetica» d’Aristotele vulgarizzata et sposta per L.C., 1570): egli sottolineava l’importanza primaria dell’originalità della «invenzione» e faceva (razionalisticamente) consistere la poesia in un «meraviglioso verisimile» che deve «dilettare e ricreare il popolo commune». Abbozzò inoltre una grammatica storica e sistematica e intervenne nella questione della lingua con le Giunte alle «Prose della volgar lingua» (1549-63 ca), in cui dimostra come la lingua italiana derivi direttamente dalla latina e pone i criteri storici della grammatica normativa.