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Il volume di Escobar presenta una diagnosi limpida. Il crollo delle Torri ha riportato in auge un pensiero e un'azione politica dove il bene assoluto e il suo trionfo su un male altrettanto assoluto diventano scuse per azioni che portano a mali non meno evidenti. E qui il pensiero dei lettori viene indirizzato alle restrizioni delle nostre libertà compiute in nome della lotta al terrorismo. Ma non solo ci assoggettiamo a una sorveglianza che prima non avremmo accettato: la cultura del sospetto e il clima di paura, insieme ai meccanismi peculiari della moltiplicazione delle immagini e della loro trasmissione, rendono tutti noi complici della sorveglianza reciproca: "L'apparato panottico cerca una legittimazione in quello sinottico, e la macchina sociale e politica della paura (
) mostra, amplifica la paura (
) e così la governa. Alla fine, produce cultura del sospetto e della segretezza, indisponibilità alla discussione, acquiescenza. Se la terra della libertà è stata violata, se le vittime siamo noi e se finalmente queste immagini ce lo provano (
) ebbene, ci si può convincere a diventare, oltre che sorvegliati, anche parte attiva della sorveglianza". Un "entusiasmo di pubblico" si è sostituito al fanatismo dei capi, costituendo un'"innocenza omicida" di massa, più pericolosa di ogni totalitarismo del passato.
Il libro si impegna con lucidità nella cura della malattia. L'indifferenza complice di noi tutti, lo sguardo che costituisce il meccanismo della sorveglianza e della sua legittimazione sono le sedi della rivolta possibile, una rivolta derivante dall'esercizio della "libertà negli occhi": la libertà di sottrarsi al ruolo di spettatori-complici, scrollandosi di dosso l'indifferenza alle sofferenze del nemico e l'adesione agli ideali assoluti che la giustificano; una libertà e una rivolta, chiarisce Escobar, che non presuppongono nessun assoluto: anzi, proprio nell'accettazione serena dell'imperfezione dell'umanità sta la base del rispetto per la nuda vita, quel rispetto che manca nella macchina della guerra al terrorismo.
Il movimento dello sguardo che costituisce a un tempo l'esito e la legittimazione della guerra occidentale al terrore, riprendendo Foucault, viene ricondotto da Escobar al panopticon benthamiano. Tuttavia, se il problema è la negazione della civiltà giuridica perpetrata a Guantanamo, la soluzione di Bentham va discussa, e non demonizzata, o usata come vaga metafora. La teoria benthamiana della pena va contestualizzata storicamente, alla luce delle intenzioni che la muovevano. Magari anche riferendosi agli ampi Poscripts (assenti dalla traduzione italiana e da Sorvegliare e punire), in cui l'attenzione alla clemenza delle pene non è minore di quella di Beccaria. Se diagnosi deve essere, e cura si deve proporre, sarebbe utile una maggiore attenzione ai dettagli e alle sfumature dei paradigmi di civiltà giuridica che implicitamente si vogliono difendere. Si vedrebbe allora che la tradizione dell'Illuminismo giuridico è quella che ha le maggiori risorse per risolvere i problemi dei nostri anni: si pensi ai passi in cui Bentham denuncia le torture, simili a quelle di Guantanamo, allora diffuse nelle carceri inglesi, sostenendo che si tratta di punizioni solo apparentemente differenti dalla pena capitale, ma in realtà corrispondenti a essa. Un'analisi di questo tipo è il punto di partenza migliore per la rivolta cui l'autore esorta.
Gianfranco Pellegrino
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