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La materia del quinto libro delle Lettere (giugno 1548-ottobre ’50) si dispone docilmente intorno a due fuochi: il matrimonio di Adria, la figlia primogenita, e l’elezione a papa di Giulio III; nell’uno e nell’altro caso al ruolo naturale – il padre premuroso e il suddito devoto e plaudente – si affiancano quelli fissati dalla prosopografica aretiniana convenzionale. Nel primo soprattutto la mozione interessata e insistita degli affetti; nel secondo il balenio di una promozione romana (il cardinalato?). Si saprà poi che la seconda era un’illusione e il credito che ne sembrava discendere era solo millantato; per il momento però era moneta sonante, tale da attirare sullo scrittore l’attenzione generale, e non solo a Venezia. E da autorizzare la conclusione che la fortuna era diventata finalmente favorevole: «la sorte (…) mi ritorna di trista ottima» (lett. 503). In questa chiave anche la genesi stessa del libro, allestito pressoché in una col quarto e proposto a caldo con dedica a Baldovino Del Monte, l’onnipotente fratello del papa, secondo una strategia ribadita l’anno dopo dall’offerta a un altro Del Monte della silloge delle Lettere scritte a Pietro Aretino. Mai, dai tempi di Giovanni dalle Bande nere, Aretino si era sentito così vicino a una meta tanto prestigiosa. Tra l’una e l’altra delle due intonazioni principali, lo svolgersi noto della vicenda personale e pubblica dello scrittore. Che per quegli anni è segnata da fatti come la ripetuta commemorazione di Bembo e poi quella di Trifon Gabriele; la collana ricevuta in dono dal principe Filippo di Spagna, che nel libro brilla non meno di quella di Francesco I nel libro del ’38; la nobilitazione della memoria materna, con monna Tita recuperata in effige dal fido Vasari; il matrimonio dello stesso Vasari; l’attivismo instancabile e per lo più a buon fine in favore di predicatori e confessori, o anche di frati sospettati di eresia; gli affetti di padre enfatizzati da una grave malattia di Austria. Ma questa volta tutto, va detto, quasi in sordina. Non potevano non esserci, quelle tonalità, pena la verosimiglianza, e quindi l’efficacia argomentativa, del libro aretiniano di lettere; ma non si poteva non tener conto, nel momento di allestirlo e di licenziarlo, che era l’ultimo tratto di un itinerario che da lì in poi si sarebbe comunque svolto, con o senza cappello, all’ombra di Pietro. Tutto sotto tono, è vero, salvo un acuto fortissimo e all’apparenza eccessivo, la risposta sferzante a Bernardo Tasso, reo di aver misconosciuto il magistero epistolare dei moderni (lett. 345). Aretino, suscettibilissimo, e si capisce perché, si ergeva a difesa, col proprio, dell’onore di tutti; con una veemenza che fece prefigurare il duello. Ne andava, era evidente, il diritto di una prelazione su un genere, ma anche il senso di tutt’intera una biografia che con quel genere si era ormai identificata.
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