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recensione di Lauro, C., L'Indice 1997, n. 1
Oltre che un testo assai ben curato, è questa la più ampia rassegna di lettere proustiane sinora edita in Italia. InFrancia, ancor prima della monumentale edizione curata da Philip Kolb in ventuno volumi (usciti tra il1970 e il 1993), erano sempre allignate numerose "corrispondenze" parziali e antologiche. Perché forse nessun altro autore, come Proust, ha mai sollecitato (contro ogni sua intenzione) il gusto indiziario e biografistico dei lettori. Demolire così bene un maestro di biografie come Sainte-Beuve non gli era servito. Predicare sino all'ultimo la separazione tra la propria vita e il proprio romanzo, ancor meno.
Valga, allora, il monito diGiovanni Raboni nella lucida introduzione: piccoli e grandi piaceri di queste immersioni epistolari acquistano senso se ne riconosciamo a priori la perfetta inutilità rispetto alla lettura dell'opera.Scoprire coincidenze, somiglianze e divergenze (tra personaggi e corrispondenti, tra il narratore e Marcel, ecc.) è un gioco un po' vizioso che non dovrebbe interferire col romanzo, ma intervenire semmai in un secondo momento, prolungandone certi godimenti più esteriori.
Certo, dopo migliaia di pagine di "Recherche", non c'è purezza di lettore che, di fatto, resista alle debite "verifiche" dell'epistolario o della biografia di George D.Painter (Feltrinelli, 1996).Non c'è proustiano che, in qualche misura, non trasgredisca Proust. Ma l'uso di questi materiali è ancora innocuo se corrisponde, come dice Raboni, a una sorta di "frequentazione postuma" dell'autore; è un illecito critico (quello che più temeva Proust) se strumentalizzato per la Recherche.
E frequentare Proust nella sua corrispondenza significa prima di tutto scoprirne le continue dipendenze (affettive, pratiche) dagli altri. È un filo rosso che va dalle lunghe, talvolta tormentate, lettere alla madre sino ai biglietti con le disposizioni domestiche per Céleste Albaret, attraverso quello "sterminato inno all'amicizia" (secondo la definizione di Giancarlo Buzzi) che sono le innumerevoli missive agli amici.
Anche negli anni giovanili, quelli dei brevi viaggi, delle villeggiature e della mondanità, Proust ha i toni del recluso e del malato che sempre si attende dal mondo esterno una serie di attenzioni e accondiscendenze: consigli d'ogni genere, invio di libri e opuscoli, indicazioni per le sue traduzioni, descrizioni di serate cui non è potuto intervenire, eccetera. Il cortesissimo spirito di flessibilità e di rinuncia del mittente è pura forma: le sue richieste (rinforzate da miriadi di specifiche e di raccomandazioni) hanno l'intonazione dell'indispensabilità; ancor più, quella implicita, e un po' ricattatoria, della messa in prova della dedizione altrui.
Proust cioè verifica se sono ricambiati quegli affetti che in lui sconfinano nell'accecamento, accecamento che in certi casi si estende alle sue facoltà critiche. Imbarazzante seguirlo nei deliqui per le poesie e il romanzo di Anna de Noailles, per le recensioni musicali di Reynaldo Hahn (che, secondo l'amico, né Gautier, né Berlioz, né Sainte-Beuve, né Wagner avrebbero potuto eguagliare!).Eppure, non c'è contraddizione tra le pagine infallibili su Flaubert e Baudelaire e questi grotteschi ditirambi alla mediocrità. Proprio per un'altezza di visione assoluta Proust può permettersi qualsiasi arbitrio o discesa.Ciò allora vale anche per le aree dell'epistolario dedicate al bel mondo. Tanti zuccherosi arabeschi, tante premure e cerimonie Benjamin li interpreterà come la tensione e la curiosità di un detective verso un clan di malfattori (o, con ottica marxista, verso "i "professionels" del consumo").Si avverte, difatti, nei continui complimenti epistolari, l'utilizzo di una griglia retorica, la consumata abilità mimetica dell'autore dei "Pastiches".Anche qui Proust sembra in fondo corrispondere da una dimensione assolutamente separata.Eppure, in queste stesse prove così galanti e artefatte, si schiudono immense risorse di intelligenza, di ironia, di sensibilità e un'ansia di conoscenze commovente.
Per esplicita scelta, delle 790 lettere del volume, soltanto poco più di 200 appartengono al decennio decisivo della "Recherche" (1913-1922), decennio in cui, a scapito della lotta contro il tempo, Proust pagava il prezzo della notorietà con un incremento della corrispondenza.Sarà anche vero, come scrive Buzzi, che le lettere del periodo di formazione si presentano "più interrogative e problematiche"; ma quelle con la "Recherche" in pieno cantiere (a Gide, a Rivière, a Gaston Gallimard) sono dei veri fari sulla progettualità dell'opera, sulle prime ricezioni di Proust nel mondo letterario.Gli accenni, con perfetto distacco, al vizio di Charlus sono poi una delle impennate più alte dell'impenetrabile recita proustiana.
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