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Ho appena finito di leggerlo e devo dire che è il tassello mancante per conoscere Cèline, il grimaldello per entrare in quella sacca di dolore che è stata la sua vita. Questo è un libro che consiglio vivamente a Zok, Lapo, Fiorucci, Lucifer, Balordo, Rosalia e le tante persone che lo hanno amato..
Recensioni
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(…) Molto interessante è la corrispondenza di Céline con gli editori sulfurea e a tratti d’irresistibile comicità; e certo non si capirebbe tanta libertà di sberleffi e minacce rivolti a rispettabili patrons di case editrici senza la spavalda autoconsapevolezza d’essere il più grande e innovativo scrittore del secolo. (…) Oltre che “stilista”, spesso con ambigua modestia Céline si auto-definisce “operaio”, “maniaco del lavoro scrupoloso”; un operaio, però, “che vuol essere pagato in contanti, alla consegna del lavoro, chiaro, preciso, cash, senza storie”. Da qui continue diffidenze e proteste per gli emolumenti non adeguati, le dubbiose tirature, la pubblicità insufficiente riservata ai suoi libri (indicati più volte, affettuosamente, come le “mie bestie”).
Su questo registro di sfiducia e di tendenziale isolazionismo si muovono trent’anni di epistolario, dal 1931 al 1961, poco cambia che scriva nel pieno dei riconoscimenti a Parigi o dal gelido esilio finlandese di Klarskovgaard. Due ossessioni, non meno cocenti di quelle pecuniarie, agitano Céline. La prima è quella delle bozze che genera frequenti allarmi per le licenze dei correttori (“per carità non aggiunga una sola sillaba al testo senza avvertirmi! In un attimo farebbe crollare il ritmo”). L’altra riguarda le copertine dei volumi per le quali, anche dall’esilio, invoca la sobrietà (“semplicissima, classica, niente piaggerie, niente colori, asciutta”).
Per l’operaio Céline gli editori sono sostanzialmente sfruttatori, “ruffiani delle meningi”; il loro establishment, un covo di incapaci e vacanzieri. Passato nel 1951 alla Gallimard, la ribattezza sempre con mille nomignoli, a colpi d’ascia (“NNNNRF” “Gallimerda”, “Nennereffe”, “il ghetto N.R.F., frocio-gaullista-partigiano”). (…). Impassibile di fronte alla gragnuola celiniana diretta e indiretta (“vecchio cioccolataio”, “faraone dei premi letterari”, “disastroso salumiere”) è il potente e facoltoso Gaston Gallimard, misurato, sempre dialogante. Due forze contrattuali a tenzone, l’una necessitosa dell’altra(…).
Nelle ultime lettere si affaccia drammaticamente la lotta contro il tempo: Céline lamenta il ritardo della sognata canonizzazione nella Biblioteca della Pléiade “tra Bergson e Cervantes” (miraggio che si realizzerà nel 1962, un anno dopo la sua morte). (…). Spesso periodi interi di lettere, all’insegna dell’iperbole, sembrano usciti dai pamphlets se non dai romanzi: i sarcasmi e l’inventiva verbale, le paranoie, il pessimismo sull’uomo e le sorti progressive sono i medesimi. (…)
Recensione di Carlo Lauro
Rieccolo in scena, Céline, anche senza mentite spoglie. Si intitola Lettere agli editori il libro (per la cura amorevole di Martina Cardelli), e si può leggere come una farsa, fa venire in mente il Misantropo di Molière. Lì c’era: “Se come veri lupi, fra uomini vivete / mai finché campo, mai, traditori, mi avrete!”; qui, solo per un esempio, “Non sono felice di vedere i miei fratelli trasformati in subdoli, vigliacchi, e sadici maiali – Li preferirei più verticali e decenti”. L’epistolario contiene quasi solo lettere di Céline e va dal 1932, l’anno della pubblicazione del Voyage, al 1961, anno della morte, e anzi le ultime due non furono spedite ma ritrovate sul tavolo di lavoro e consegnate a mano dalla compagna Lucette. I destinatari sono principalmente Robert Denoël, l’editore che aveva avuto coraggio e prontezza per assicurarsi Voyage, Pierre Monnier, fedele e sperticato ammiratore che per lui si trasformò in agente ed editore, Jean Paulhan nonché la dinastia Gallimard.
Le Misanthrope dicevo, difatti il libro si legge come un epistolario comico di sola andata, una commedia grottesca, un delirante monologo, anzi melologo vista la crescita pagina dopo pagina della famosa petit musique, ambientato all’epoca in cui le case editrici non erano caserme, quando ancora si rispondeva alle lettere anche da parte dei “superiori” quasi fosse un obbligo morale, non s’usava lo status per rimarcare che non c’è mezzo di esclusione più efficace del silenzio.
La commedia quindi si svolge ovunque vi sia un editore cui scrivere, per rivendicare edizioni e anticipi (“Ho l’anima da operaio. O regalo o faccio pagare a peso d’oro, non conosco vie di mezzo”), per appianare debiti. Il protagonista si crede furbo, fa trucchetti tipici del perdente nato, escogita, talvolta mette in pratica piccole vendette inutili e controlli delle vendite in tipografie. Sbraita, ha attenzione maniacale pei particolari, s’indigna per le copertine, per il “sabotaggio delle virgole”, la carta, i caratteri tipografici, peggio che peggio i tagli (“Ma provi a spostare di un millimetro la boccia di un giocatore di bowling! Se non l’hanno mai assassinato… è la volta buona”). Orribilmente preciso, clinico, scientifico, petulante, fa tenerezza per come intenderebbe mettere paura: “Fuori il grano! Attenzione! Sono cattivo quando si arriva al dunque! Quando non sarò più fuorilegge mi vedo mille volte ancora più rompicoglioni!”. Se al mondo “ci sono solo due tipi di persone, le canaglie e gli imbecilli”, lui non vuole appartenere né a l’uno né all’altro, dice, ma sa benissimo qual è la sua casella. Ha incontrato presto il suo destino, l’ha abbracciato un po’ perché non poteva fare altro, un po’ per convenienza e difesa.
In effetti la lettura in sequenza dà l’idea di un rompicoglioni insopportabile (a un certo punto Paulhan non ce la fa più e sbotta, tenero o quasi: “Perché diavolo ha un così cattivo carattere?”), in realtà le lettere si dispiegano nel tempo, e se quello di Molière è il carattere perenne del nevrastenico che fa ridere per come inciampa, intruppa agli spigoli della realtà, per come rimbalza malamente sul mondo, qui come in tutto Céline ascoltiamo la voce roca eppure squillante di una vitalità esasperata, anche disperata che prova a nascondere, neanche tanto bene, un individuo si asociale ma provveduto di un grande bisogno d’amore, un innamorato deluso dal mondo e di rigidi principi che di nuovo lo portano a contrasti con l’ambiente sociale e all’isolamento, alla presa di distanza. Che so, un amante dei boschi che man mano che s’avvicina ha da ridire sui singoli alberi perché, anche se non si può dire, di alberi marci in effetti si tratta.
Non sono d’accordo con la curatrice quando sostiene che già all’inizio, nelle lettere di proposta del Voyage alla Nouvelle Revue Française, avesse chiara percezione del suo valore. Le lettere invece paiono stentate, la voce cerimoniosa quasi di chi si fa forza, pur se confortata dalla certezza (quella stramba certezza che sostiene, a volte, chi ha scritto qualcosa) di aver finito qualcosa di importante.
Ma poi il tono diventa di cinismo ostentato e provocatorio, come i delusi d’amore appunto, niente di più lontano dall’indifferenza, nichilista ma ben mascherata da solidarismo e volontarismo, che allignava nei funzionari del Ministero delle Belle Lettere: “ i miei accusatori sono tutti impiegati – io no. Gli impiegati cambiano padrone. Hanno sempre un padrone – Io non ho mai avuto padroni – Ho perso tutto in questa spaventosa avventura in cui avevo perso tutto in anticipo. Non ho nemmeno giocato la carta del poeta, la carta perdente, non ho giocato affatto. Trovo indegno giocare”. Si autodenigra per pudore, per nascondere la delicatezza di un sentimento, il disincanto esibito è la reazione dell’innamorato deluso e, sembrerà ingenuo ai funzionari di sicuro, di chi ha una così alta concezione dell’uomo da non sopportare lo spettacolo della sua reale miseria morale.
La verità non si può dire perché solo a una certa distanza si può vedere, ed è che Céline ha incontrato presto il suo destino di uomo e di scrittore (il successo sì, ma il premio Goncourt non gliel’avevano fatto vincere, assai prima che diventasse odioso: “Scherzo perché infame come sono ho avuto fin troppo successo considerando come va il mondo… Solo i bravi bambini che non rompono niente vengono premiati”), e callidamente l’ha utilizzato, se n’è avvantaggiato per scrivere. Piaccia o meno è uguale, per restare vivo è dovuto diventare spregevole; per non partecipare, già ai suoi tempi, alla trasformazione della letteratura in facciata culturale borghese che serve a nascondere con cura piccinerie e vigliaccherie: giacché nessun uomo mediocre s’è visto finora scrivere un grande libro, allora bisogna darci di grancassa per crederlo tale prima di tutto, e poi farlo credere ai clienti. Robert Walser a suo modo ha utilizzato la follia, lui il “tradimento”. Solo alla giusta e doverosa distanza dal marciume intellettuale poteva scrivere quello che ha scritto, libri veri, onesti, infiammati dal coraggio, costruiti con puntiglio e rigore, e dall’inizio alla fine badiamo bene, non una volta tanto per causa di fortuna.
Ma poi alla fine, pur nella assenza o nell’appena accennata comparizione degli interlocutori (esempio Gaston Gallimard la cui idea di letteratura, come dice la Cardelli, “era evidentemente tanto vasta da comprendere anche il proprio vilipendio”) si ha l’impressione di un dialogo tra giganti, e uscendo dal libro pare quasi d’aver letto una cosa tipo Baldus, magari.
Recensione di Paolo Morelli.
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