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Primavera '45. Una Bachmann quasi ventenne scrive queste lettere, pubblicate a distanza di mezzo secolo, e che vanno ad aggiungersi ai carteggi con i diversamente e tormentosamente amati Henze e Celan. "Il dolore troppo precoce", provato a dodici anni, quando le truppe di Hitler invadono la sua Carinzia, è alle spalle, ma il trauma ne permea opera e vita fino al '73, quando si addormenta con una sigaretta accesa, diventando una torcia umana. "Ho adorato, bruciato radici", scrive tempo prima, e, quasi una prefigurazione, "le sigarette mi hanno bruciato le dita", "che crudeltà graffiarmi sulla pelle, al cuore non si può più colpirmi".
Nel '45 gli anni della fine sono lontani. La poetessa ha al suo attivo un dramma, un lungo racconto, poesie. E si sente. La scrittura è già piena dell'adorata "luce", e se ne intuisce la futura potenza. Ma chi è Felician? Ci sono solo supposizioni e non è utile saperne di più. Anche perchè è probabile non esista. Lei ripete che desidera raggiungerlo e non lo fa, anticipando la storia con Celan quando, nel '48, gli scriverà: "Non vorrei che venire a Parigi (
) sentire come mi copri di fiori". Alla fine andrà e la convivenza precipiterà. Senza soldi, tutti e due non ancora affermati, ma troppo votati all'arte per vivere di quella passione che "toglie l'aria". Tre anni prima, all'epoca di Felician, prevale la necessità di diventare la donna e scrittrice che urge in lei e di autodefinirsi, anche se è complesso perchè: "Ci sono due esseri dentro di me, l'uno non capisce l'altro." Quel tormentato Doppelleben, tra l'Austria natale e la Roma adottiva, patria degli amori con il compositore Henze e lo scrittore drammaturgo Frisch, non sarà mai, come viene fuori già da queste lettere, una questione puramente geografica, ma esistenziale. "Sono sempre stata al confine", "ho sempre nutrito", per tutto, "un duplice sentimento di amore e disperazione".
Un'insanabile dicotomia accomuna dunque ai successivi questo primo "amore", diviso tra desiderio e fuga, tra dipendenza totale, votata a un masochistico annullamento "vorrei inginocchiarmi" "servirti" "venire sui piedi piagati" e tendenza al dominio. "Divino è l'eccesso" e le passioni sopra le righe, brucianti, non convenzionali, letali. Henze, il grande amore omosessuale e impossibile, il quasi marito, collaboratore e confidente ventennale, dirà: "Avrebbe voluto una vita normale
ma si innamorava delle persone sbagliate". A parte lui, eccole. Celan, profugo ebreo, scampato alla persecuzione nazista. Nel '69 si getterà nella Senna, e lei: "È affogato, era la mia vita". Frisch: lo incontra negli anni cinquanta e per lui, gelosissimo, "lascia" Henze. Quando la scandalosa e drammatica relazione, consumata tra Roma e Zurigo, finirà, lei tenterà il suicidio e poi si rifugerà negli psicofarmaci. Compagni ipersensibili e instabili. Ma il punto forse è un altro. "Mia felicità è amarti, mio dovere evitarti": è in questo spazio tra felice resa all'amore e proposito di negarglisi per anelarlo e poi "bruciarlo" sull'"altare" del rapporto amoroso ed erotico che si consuma la Bachmann amante.
Tempo dopo, lucida come sempre, denuncerà: "Io estraggo il mio cuore da me, lo spedisco più lontano che posso", stessa "sacrificale" imposizione di un rapporto autodistruttivo. Come con Felician, conta "tendere", non essere appagata. Non ne è capace: colpa del conflitto che la divora. E poi, teme che l'appagamento spenga quella tensione che è il motore per ciò che più desidera. Infatti: "Solo questo voglio: essere 'io'", che è anche "essere nelle parole". Per farlo "usa" la "spinta" che dà l'amore per "diventare migliore e più grande", anche a costo del dolore. Misura e sostanza di quella "nostalgia" e "vasta e infelice lontananza" da ciò che ama da cui scaturisce il movimento vitalistico che la porta a consumarsi e consumare relazioni come fossero soglie rituali per arrivare al cuore di un sé che sfugge. Ancora distanza, confini.
Dopo i quarant'anni forse loro resteranno, ma non la forza per sfidarli: si ridurrà a "elemosinare farmaci", un sonno drogato. Leggendo questo libro, ricco di languidi slanci, colpisce la consapevolezza, come se la sua intensa vita non sia stata che il risultato di un destino intuito e che iniziò a realizzare proprio da qui. Inutile chiedersi cosa avrebbe scritto e cosa ne sarebbe stato se si fosse arresa al bisogno di "vita normale" di cui parla Henze o, come diceva lei, a "quella parte di me" che "temo" perché "ama tanto la vita" invece che a quella succube del bisogno di morire e rinascere, sempre meno metaforicamente, dalle sue stesse ceneri. Fino al '73. Laura Fusco
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