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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2018
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POE, EDGAR ALLAN, Vita attraverso le lettere (1826-1849), Einaudi, 1992
DICKINSON, EMILY, Lettere 1845-1886, Einaudi, 1992
recensione di Folena, L., L'Indice 1992, n.10
Di Poe diceva T. S. Eliot che il suo intelletto era quello di un preadolescente altamente dotato; e al di là della malignità ingiustificata del giudizio letterario, si tratta di una chiave di lettura che verrebbe fatto di trasferire dai testi, traducendo "intelletto" in "emotività" o "affettività", a quell'altro testo composito e frammentario che è la vita di Poe come la conosciamo. I ricorrenti conflitti degli anni giovanili con il padre adottivo John Allan, che incarna la Norma o la Legge (e cioè le pressioni della società borghese e benpensante del sud americano), mostrano un Edgar già alle prese con i suoi primi tentativi poetici e già incapace della disciplina e dell'autocontrollo che gli si chiede almeno di simulare; in ciò non fanno che prefigurare una dimensione "adolescenziale" dell'esistenza di Poe, la quale si svolge tutta nel segno della tensione tra l'individuo e il gruppo, che lo respinge per la sua indisponibilità a conformarsi alle regole, fino alla morte misteriosa e solitaria, dopo il delirio alcolico nella strada di Baltimora il giorno in cui si celebra uno dei più importanti riti collettivi di autolegittimazione della giovane democrazia, quello delle elezioni.
Tragedia, genio e sregolatezza, dunque: esistenza "romantica", e avventurosa, sia pure nel senso dell'avventura della quotidiana miseria. Ed è in parte, come traspare dall'epistolario, lo stesso Poe a incentivare una lettura del genere: una vita non necessariamente vissuta tutta come un romanzo, ma certamente costruita, rappresentata o riscritta per essere tale. È Poe che ricorrentemente si ringiovanisce per mettere in luce una precocità che accentua retrodatando la composizione di alcune liriche; è Poe che si atteggia a eroe romantico inventando una spedizione byroniana in Grecia in difesa della libertà; ed è Poe che (oltre a tessere una tela di menzogne sfacciatamente utilitarie, riscrivendosi un passato più atto a raccogliere il consenso e anche il sostegno economico dei suoi corrispondenti) ripetutamente pone la malinconia, l'infelicità senza oggetto, a cifra essenziale della sua esperienza esistenziale: "Ho lottato invano contro l'influsso di questa malinconia... Sono infelice, e non ne conosco il motivo" (p. 55).
Le relazioni con le donne degli ultimi anni danno luogo a effusioni epistolari verbose e concitate, tempeste di superficie che tentano invano di occultare la scarsa profondità e l'uniforme desolazione del fondo, e suonano false perché appartengono in realtà a un altro genere, dove l'abietta nobiltà del "nero" si stempera nel "rosa" più dozzinale. Anche la morte è annunciata, scritta, come un evento necessario che ristabilirà la corrispondenza tra istinto vitale e capacità creativa: "Non serve a nulla discutere con me ora; devo morire. Da quando ho finito Eureba, non ho più alcun desiderio di vivere. Non riuscirei a portare a termine nient'altro", Poe comunica alla zia - suocera - madre elettiva Maria Clemm tre mesi prima della fine (p. 287). L'urgenza di scrivere se stesso, di determinare da sè, per quanto possibile, la formazione e la diffusione della propria immagine, rappresenta una costante: "alla mia età è importante essere visti. Se venissi notato almeno una volta, riuscirei facilmente ad aprirmi il cammino verso la notorietà", afferma un Edgar ventenne (p. 24); e la stessa preoccupazione riemerge quando, in anni più maturi, Poe si sforza di stabilizzare l'interpretazione e la fortuna delle sue opere, o di produrre una versione "ufficiale" delle motivazioni di un suo gesto, arrivando a comporre testi esplicativi che chiede ai suoi corrispondenti di trascrivere come propri: "In questo momento, c'è un altro favore di grande importanza che è in vostro potere rendermi. Vale a dire, inserire il seguente brano nell'editoriale del vostro giornale..." (p. 189); "La prima volta che venni qui, dissi a Elmira di possedere un suo schizzo a matita... Cosi, quando mi risponderete, copiate nella lettera le seguenti righe..." (p. 294). E il progetto non realizzato del volume del "Folio Club", che avrebbe dovuto contenere una serie di racconti di Poe accompagnati dalle recensioni prodotte da un gruppo di lettori immaginari (pp. 72-73), è un'altra versione di questo bisogno di essere, oltre che lo scrittore, il critico di se stesso. Tale esigenza è poi connessa agli innumerevoli tentativi, invariabilmente destinati al fallimento, di fondare una rivista per svincolarsi dai condizionamenti economici ed estetici dell'establishment letterario della East Coast, raggiungendo la meta di "essere l'editore di [se] stesso" (p. 211): una ricerca che Barbara Lanati nell'introduzione (p. XIV) definisce "la cifra vera, ultima, del suo epistolario, la chiave conoscitiva del suo sogno impossibile".
Per questi motivi il titolo del volume risulta particolarmente appropriato. La "vita" che si intravede attraverso le lettere di Poe è la sua ipotetica Vita, il testo sfocato di un'autobiografia frammentaria e contraddittoria ma coerentemente strutturata come un romanzo dell'io. Si può dire che ogni epistolario è un'autobiografia, sia pure problematica; ma nella maggior parte dei casi a tradurre la molteplicità dell'uno nell'unità dell'altra - mentre tra il mittente e ciascuno dei destinatari originali si intrecciano fili di autobiografie o almeno di diari eterogenei tra loro - è proprio la lettura sequenziale, compinta per la prima volta da un curatore, che sceglie come suo principio di organizzazione il tempo della scrittura, le date delle lettere (invece che, poniamo, la pluralità degli spazi e delle distanze fra mittente e destinatari), seguendo una direttrice temporale omologa a quella dell'esistenza e quindi agevolmente riconducibile a questa. In un certo senso Poe compie da solo questa operazione - diventando il primo lettore del suo epistolario - perché la funzione più profonda della "menzogna" nelle sue lettere è appunto quella di permettere lo scambio tra un inattingibile principio di unità esistenziale e l'accessibilità di un centro narrativo.
Se Poe sostituisce le "carte'' del suo gioco per rintracciarvi un senso meno frammentario, un percorso per certi versi analogo di ricerca dell'unità e trapasso dalla Vita alla "lettera" è compiuto da Emily Dickinson a pochi anni e poche miglia di distanza, benché in tempi e luoghi incommensurabilmente altri. Anche qui la solitudine diventa una condizione imprescindibile: "L'anima deve passare vicino alla Morte da sola, e così pure vicino alla Vita, se è un'anima" (p. 106). Certo, l'itinerario esistenziale e intellettuale della Dickinson segue un tracciato di tutt'altro aspetto da quello di Poe, lineare e tendente alla concentrazione, al controllo e alla sintesi. La Dickinson chiude una dopo l'altra, nel corso degli anni le porte e le finestre che la collegano materialmente al mondo, con una serie di gesti deliberati di semplificazione e riduzione all'essenziale, indietreggiando gradualmente fino a imporsi la clausura di una stanza nella quale spalanca l'unica finestra destinata a rimanere aperta fino alla fine, quella della scrittura: è il luogo delle lettere, rarefatte e folgoranti come poesie, e delle poesie, che sono a loro volta lettere scritte per un destinatario da cui non ci si attendono risposte ("Questa è la mia Lettera al Mondo / Che non ha mai scritto a Me", dice una lirica del 1862).
Poe si limita a "scrivere" se stesso, e a scambiare vita con parole; la Dickinson esegue, compiuti simili preliminari, il comandamento di una "Filologia'' molto più radicale e definitiva che recupera alla parola una mitica materialità originaria "incarnando" il "Verbo" (i termini sono quelli di un'altra lirica dickinsoniana), investendolo di una realtà altrettanto corporea e pesante, opaca e impenetrabile, di quella posseduta dall'oggetto più concreto: "Dobbiamo fare molta attenzione a ciò che diciamo. A nessun uccello è data la possibilità di riprendersi dentro di sé l'uovo" (p. 126). L'abbandono graduale del "mondo" non è dunque per lei rinuncia, n‚ sublimazione, ma atto di vigorosa sintesi e concentrazione come quelli che generano le più compatte delle sue metafore-simbolo, dove una realtà non "sta per" un'altra ma la trascina con sé come una sua dimensione preesistente, solo allora resa visibile.
Del resto c'è una perfetta corrispondenza tra il viaggio esistenziale alla ricerca dell'essenzialità e il percorso seguito nelle lettere dalla scrittura, che si libera progressivamente dalle pastoie di una sintassi prosastica e da quelle del common sense volgare per esplorare territori al confine con la poesia, recuperando in capacità di sorprendere e pienezza di peso specifico ciò che perde in voluminosità. In realtà più che di somiglianza si dovrebbe parlare di identità tra scrittura e vita, e tra il messaggio e il suo supporto materiale. Negli ultimi anni, come fa notare Barbara Lanati, (p. XXXI), la corporeità dei segni sulla carta diventa così tangibile che Emily Dickinson - mentre sottrae la sua presenza fisica agli occhi di amici e familiari - domanda ad altri di tracciare gli indirizzi sulle buste, occultando la scrittura perché la visione ne sia concessa solo al destinatario; e d'altronde sa bene "Quale incredibile Rischio comporta una Lettera!" (p. 229).
La ricerca dell'essenziale non esige rinuncia all'emozione, n‚ al desiderio, così come " Sottrarre ciò di cui è fatta l'Estasi, non implica rinunciare all'Estasi" (p. 216). Il gioco della passione e della negazione, chiuso tra la scelta di rimandare all'infinito la soddisfazione del desiderio e la consapevolezza che esso è comunque di per sé infinitamente insoddisfatto, dà luogo a espressioni rapite e intense, nel fondo delle quali rimangono, come in molte delle liriche, il dubbio e la domanda, mentre l'io si interroga sul suo percorso e sul rapporto tra esso e il proprio essere donna: "la Bibbia sostiene maliziosamente che 'Il Viandante, anche se Sciocco- non dovrà d'ora in avanti più errare'; e la Viandante? Chiediglielo alle Scritture ricche di pulsioni" (p. 161).
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