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Il suo desiderio è quello di dissuasione all’atto suicida-omicida. In che maniera? Sceglie la scrittura e, soprattutto, la formula confidenziale della lettera indirizzata, preferenza ardua, a un kamikaze, uno shahid: il martire, carnefice ma anche vittima del “cattivo maestro”. Usa le parole, simbolo di civiltà, per contrastare la violenza del gesto di chi si uccide per uccidere. “Ogni lettera soffre di un limite, quello di essere confinata nella su scrittura – scrive il sociologo – e anche se le si assegna il fine di tradurre il peso della storia, essa è impotente a mutare il corso delle cose e degli eventi. Una lettera non può scandire il suo tempo, ma le parole sono l’unica cosa che l’uomo non può distruggere”. Mai come oggi il mondo sente il bisogno di nuove parole e nuovi linguaggi per esprimere valori, identità, globalizzazione, dialogo tra culture, democrazia e libertà. Fouad Allam indaga le motivazioni della scelta estrema, si fa psicologo, filosofo, teologo. Cerca di comprendere per far comprendere al lettore occidentale l’insegnamento della religione islamica che, nella versione più autentica della scrittura non esalta il suicidio ma piuttosto condanna chiunque versi sangue innocente. “Può quel sangue versato rappresentare l’acqua del tuo paradiso?”, chiede. L’autore dà una risposta ed un senso all’assurdità del gesto per poter argomentare la dissuasione. “Il kamikaze non si sente iscritto nel destino della storia – dice Fouad Allam – si sente estraneo a sé stesso e, dunque, al mondo”. Il distacco su cui più volte ritorna è proprio quello tra memoria e storia, tra identità e religione. Trova la spiegazione ad un gesto estremo, incomprensibile per la nostra cultura cercando di chiarirlo a parole “per aprire un valico nel muro oltre il quale si apre un altro mondo”, scrive. Occidente e Islam a confronto nel tentativo di colmare le distanza. Ma, Khaled Fouad Allam si congeda dal lettore con un dubbio irrisolto: come vivere insieme? Ma anche “cos’è l’Europa con le sue prospettive e le sue contraddizioni?”.
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