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Nel continuo e tumultuoso accumularsi di trasformazioni che ha caratterizzato la società italiana di questo ultimo decennio, il sindacato è sembrato essere specchio e sensore di una crisi di identità del mondo del lavoro, più che interprete lucido e coerente di possibili strategie di governo dei cambiamenti in corso.Con la crisi dei vecchi modelli gerarchici del capitalismo fordista è divenuta evidente anche la crisi dei modelli di rappresentanza e di autorappresentazione collettiva dei soggetti subalterni. Alla fine, è la stessa idea di lavoro ad essere sottoposta - nel senso comune, prima ancora che nelle teorizzazioni degli esperti - a una critica radicale, che riguarda i suoi contenuti, i suoi ambiti, persino il suo «valore», in relazione alle aspirazioni delle persone. Tornano cioè alla ribalta domande semplici e radicali, che sconvolgono le vecchie certezze delle società a capitalismo industriale. Vale la pena di lavorare? Potendone fare a meno, non sarebbe meglio rinunciarvi? Come sfruttare i vantaggi dell'enorme potenziale di innovazione tecnologica che viene dalla società informatica? E se di lavoro ce n'è sempre meno, non sarà auspicabile redistribuirlo un po’ per ciascuno? E quale rapporto c'è - ci deve essere - tra il lavoro e la vita, tra il tempo dedicato a lavorare e quello destinato al resto delle attività umane? E cosa sarà, allora, il «non-lavoro»? Dove collocare tutte quelle forme di prestazione non direttamente retribuita che pure sono parte notevolissima e crescente della pratica sociale di tanti individui?
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