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Anno edizione: 2013
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
recensione di Bellocchio, P., L'Indice 1991, n. 5
Non ricordo più bene che effetto mi fece nel lontano 1957 questo piccolo libro. Mi divertì certamente e dovette pure intrigarmi il parallelo Grosseto-Piacenza riferito al "lavoro culturale" che alcuni giovani della sinistra avevano svolto e svolgevano nelle rispettive città. Non ricordo che cosa ne conclusi allora. Oggi, dopo aver letto con rinnovato piacere la ristampa del "Lavoro culturale", mi sembra che le differenze fossero assai più cospicue delle analogie. Anzitutto per lo stacco temporale di un decennio tra la generazione di Bianciardi e la mia. Un decennio decisivo, contrassegnato dalla sconfitta della sinistra, dall'egemonia della Dc, dall'erosione del mito dell'Urss, e soprattutto dalla ripresa capitalistica, del tutto imprevista nelle sue dimensioni e conseguenze, che già annunciava il boom (di cui il libro di Bianciardi dà cenno nella postilla del 1964 "Ritorno a Kansas City": ma ciò che per Bianciardi è postilla, e argomento delle opere successive, per la mia generazione era in parte già una premessa).
È poi da considerare che la pur modesta Piacenza era in una situazione sociale e culturale più evoluta (o meno depressa) di Grosseto; e anche solo il fatto di gravitare nell'orbita di Milano (e Torino) rappresentava un netto vantaggio rispetto alla dipendenza da Roma (e Pisa). Il Circolo del Cinema che frequentavo tra il 1953 e il 1956 e condirigevo insieme a una decina di amici-compagni, tra cui anche tre o quattro della generazione di Bianciardi, era sì influenzato dal Pci ma non monopolizzato come invece sembra succedesse a Grosseto. In quegli anni vedevamo i capolavori di Ejzenstejn e Pudovkin, ma ben poco o nulla della produzione delle "democrazie socialiste" ceca, ungherese, polacca, rumena. Proiettavamo e dibattevamo Chaplin e Keaton, Lang e Murnau, Sternberg e Stroheim, Dreyer, Flaherty, Vigo, Renoir, Buñuel, Vidor, Ford, Hawks, nonché i primi Huston, Dmytryk, Dassin... La stagione del neorealismo era conclusa, già s'erano imposti Antonioni e Fellini... L'atteggiamento di Marcello (alter ego dell'autore), cui interessano i valori espressivi dell'opera cinematografica, nel "Lavoro culturale" appare isolato, mentre nel nostro Circolo era prevalente. Alcuni di noi giuravano sul verbo di Aristarco, ma i più ne contestavano il magistero, e comunque, con tutte le sue angustie e sordità, Aristarco era tutt'altra cosa dal "noto critico venuto da Roma" biecamente zdanoviano (nella "Vita agra" ci sarà una bella sfottitura di Aristarco). Il nostro fanatismo era assai più estetico e formalistico che politico. Né eravamo immuni da "vitellonismo". Anche noi ci concedemmo "Estasi", all'unico scopo di vedere Hedy Lamarr nuda, ma senza preoccuparci di prendere alcuna preventiva distanza da questo "esempio di deteriore erotismo, legato a una produzione fortemente influenzata da ideologie borghesi". Il film fu giudicato insignificante e la bellezza nuda della Lamarr assai apprezzata (perché, altra differenza rispetto a Grosseto, nella pellicola proiettata a Piacenza la celebre sequenza c'era).
Ma forse quella sequenza c'era anche nella copia proiettata a Grosseto. Solo che Bianciardi ha bisogno d'introdurre quel dettaglio derisorio per concludere degnamente l'episodio. Il moralismo comunista, non pago di aver terroristicamente messo in guardia contro le pericolose tentazioni della decadenza borghese, toglie di mezzo la tentazione: l'esorcismo si rivela gratuito (il diavolo non c'era) la fregatura è completa. Sarebbe infatti sbagliato prendere Bianciardi alla lettera. Il lavoro culturale non è un saggio storiografico, un'inchiesta a posteriori, ma un racconto. Un ottimo racconto, che ha anche valore documentario. È un racconto-pamphlet, e la sua satira della provincia, dei vecchi e nuovi vizi culturali, è sempre gustosa ed efficace anche quando i particolari siano d'invenzione o i bersagli deformati fino alla caricatura.
La realtà si presenta già in forma di caricatura. Per esempio, nel capitolo VI Bianciardi si limita a elencare alcuni moduli del gergo culturale di sinistra che vigevano negli anni cinquanta ma che sono durati fin quasi ai nostri giorni, scomparendo solo per proliferarne di sempre più perversi. Qui Bianciardi non colpisce semplicemente l'ideologia o mitologia di uno specifico momento storico, ma scopre un vizio di base, l'imbroglio di ogni cultura burocratizzata, quale che ne sia il colore.
"Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni circa il problema del linguaggio. C'è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine "problema". Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si "pone" o si "solleva", indifferentemente, ma c'è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere. Quasi sempre il problema posto o sollevato che sia, è "nuovo" e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e "interessanti" o meglio ancora, "di estremo interesse", purché siano, ovviamente, "concreti". Sul problema si "apre" un "dibattito". Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui "intervengono" due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è "ampio" e profondo, anzi, "approfondito", e quasi sempre si propone un'"analisi" (approfondita anch'essa) della "situazione". La "giustezza" della "nostra" analisi sarà poi "confermata", invariabilmente, dagli "avvenimenti". La situazione è sempre nuova e "creatasi" (da sé, parrebbe) "con" o "dopo".
Al dibattito gli "interventi" portano un utile "contributo". Esso può assumere anche la forma di "convegno": in questo caso è parlato, gli interventi sono "numerosi", e gli intervenuti sono giunti "da ogni parte d'Italia". Dal dibattito "scaturiscono", oppure "emergono" o anche, più semplicemente, "escono", alcune "indicazioni"" ("Il lavoro culturale", pp. 81 - 82).
In ultima analisi, l'efficacia della satira di Bianciardi è il risultato di una fondamentale schiettezza. Anche quando la polemica è più virulenta, non è mai astiosa n‚ arrogante. Nel suo atteggiamento e nella sua scrittura c'è sempre una lealtà, una naturale dignità virile che lo preserva tanto dal rancore che dalla viltà sentimentale. Bianciardi appartiene alla generazione due volte ingannata, prima dal fascismo e poi dall'antifascismo: lo sa bene e ne ha parlato più volte. Ma senza sfiorare mai il piagnisteo che invece ha dilagato in tante opere: per fare solo un esempio, il primo che mi viene in mente, quel film di Vancini (o Zurlini: li confondo sempre) intitolato "Le stagioni del nostro amore", che avrà o avrebbe fatto ridere Bianciardi fino alle lacrime.
Il testo che meglio documenta questa integrità è un breve profilo autobiografico pubblicato nel 1952 su "Belfagor" e raccolto nella silloge postuma "Il peripatetico e altre storie" (Rizzoli, 1976). In una prosa semplice e diretta, assolutamente monda di civetterie quali ci si attenderebbe da un ex normalista e che non farebbe sospettare la ricchezza d'umori e il virtuosismo stilistico delle opere successive, il trentenne Bianciardi racconta le sue radici e lo sfondo sociale in cui è cresciuto, la sua formazione culturale, la sua maturazione morale e politica, e conclude con la pronuncia di una sorta di atto di fede che impegna il suo futuro di uomo e di intellettuale. Il testo (che pubblichiamo integrale a fianco) è notevole per più d'un aspetto, segnatamente per la capacità di sintetizzare criticamente la mentalità della piccola borghesia, ma preferisco citare dalla parte finale, proprio perché è quella in cui Bianciardi assume consapevolmente il rischio di apparire ingenuo e quasi retorico: "E così ho scelto, ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell'acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio. Anche loro hanno bambini come il mio, hanno un avvenire da costruire. Siamo proletari: prima che mi nascesse un figlio io credevo che questa parola fosse solo una figura retorica, un'iperbole, per significare chi non ha ricchezza, il nullatenente. Non è così, non basta essere soli col proprio lavoro e con la propria miseria, ci vuole anche un figlio per desiderare l'avvenire e lavorare a costruirlo. Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia terra, e ne sono orgoglioso; se in qualche modo la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò questa cultura, perché mi permette di restituire, almeno in parte, lavoro che è stato speso anche per me...".
Prima usa la formula: "stare dalla parte" del proletariato; subito dopo: "siamo proletari". È la stessa conclusione cui giungeva un altro intellettuale proveniente dalla piccola borghesia, George Orwell, nella "Strada di Wigan Pier" (1937). Ho detto sopra che queste pagine non farebbero presagire lo scrittore umorale e scaltrito del "Lavoro culturale", dell'"Integrazione", della "Vita agra". Ma chi sa leggere in queste opere vi troverà sempre integro il nocciolo duro di quell'atto di fede, di quella promessa che Bianciardi non ha mai tradito.
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