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Dopo decenni di femminismo e di esplorazione del femminile, umiliato e/o in rivolta, comincia a riemergere nella tipologia narrativa contemporanea quell'altra "metà del cielo" con i suoi maschi traditi dalla vita, spesso conchiusa nel cerchio di un fallimento del cuore. Il protagonista di questo intenso romanzo breve, Elmar, è appunto un giovane austriaco che si racconta sullo sfondo di una crisi matrimoniale. Cacciato di casa dalla bella Eva, moglie infedele e madre di due bimbette, Elmar vive in una mansarda con la biancheria sfatta e il cuore fradicio di rabbia. E si aggira per una Vienna che, ben lungi dal cadere in sospetto di stereotipo mitteleuropeo, inclina semmai alla nuda toponomastica: uno stradario privato, molla continua di ricordi familiari, in cui il resto del mondo filtra attraverso scarni ma incisivi dettagli con un gergo di rutti, travestimenti e paradisi di suburbio.
Nell'affondo della memoria l'itinerario scava dentro le ascendenze familiari, che sono poi una sola radice di sangue, sesso e dolore. Il racconto procede quindi su di un doppio registro: la rievocazione del passato - l'adolescenza e il tempo felice degli amori - e il presente, impregnato di cenere e solitudine. Ma siamo a Vienna e, in perfetta sintonia con il genius loci , la narrazione vira gradualmente nell'anamnesi identitaria. Emerge infatti prepotente la figura del padre: è lui che dal fondo della coscienza muove la macchina narrativa insinuandosi nel tessuto del racconto. Un padre seducente e istrionico, sovrabbondante e tassativo, di quelli, insomma, che compromettono l'infanzia. Un borghese colto, perciò ancor più penetrante nei suoi divieti di natura ossessivamente igienica - e dunque sessuale. Deriva da qui l'infelicità coniugale di Elmar? Non sappiamo. Certo è che l'Io adulto si rivela preso nel cappio dei precetti paterni, e di questi non può spogliarsi: i comandi decisivi dell'infanzia si fanno pieghe di un'anima in fuga da se stessa.
Cazzola sa usare al meglio questo doppio binario: nel padre Elmar si disprezza ma anche si riconosce - fin dal titolo. Ed è a lui che stizzoso si rivolge con brevi spezzoni di discorso diretto, passando in rassegna quelle sue nevrosi che gli mordono lo stomaco. Il passato di Elmar rigurgita un vuoto di tenerezza, di contatto fisico. Assente l'algida madre, accanto al protagonista e al fratello Thomas c'è solo Lea, la bambinaia boema dalle membra dure e dolci, unico volto cui il protagonista torna intermittente, come a tiepide germinazioni di un affetto disperso nel buio della memoria.
Al continuo disfarsi della matassa narrativa nel ricordo si alterna l'urgenza dello smacco presente. Aspra e provocante, Eva ha ormai ricomposto il menage con lo scultore Andergast, un galletto d'avanguardia che le tatua il corpo segnandone il possesso. Corpo di donna che Elmar si ritrova a spiare con gelosa impazienza, nella nuda povertà della carne. L'introspezione di uno strazio che a tratti s'impenna in sarcastica rivalsa è condotta con mano sicura, in un gioco continuo di nervi e di specchi. Costretto a cercarsi una faccia che non sia quella dissennata e infelice dell'uomo tradito, Elmar avverte una possibile svolta nella grigia catastrofe che regge il finale. Quel manichino esausto che vola giù dalla finestra segnala una sconfitta della vita, ma anche un fragile ritorno a casa. Con o senza opzione d'amore, a uso del lettore.
Anna Chiarloni
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