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Più di ogni altra sfera del sapere, l'architettura appare come l'arte di mettere assieme le cose, ovvero l'arte di comporre non solo materiali e forme, ma anche azioni, saperi, concetti e soggetti molteplici. Da questo fatto emerge la difficoltà dell'architettura, la sua precaria riconoscibilità come pratica, la sua impossibile (eppure necessaria) autonomia in quanto forma di pensiero. La divisione del lavoro, la tecnicizzazione del sapere imposta dalla civiltà industriale e, infine, la frammentazione continua dei processi di produzione provocata dal Leviatano capitalista, hanno minato l'idea stessa di architettura ben oltre lo spazio ovvio della sua produzione materiale. In fondo la frammentazione dell'architettura, quale riflesso di una frammentazione oramai totalizzante delle cose, si riproduce oggi a partire dalla nostra stessa mente, e cioè nella nostra difficoltà di concentrarci, di organizzare il pensiero, vale a dire nella nostra (in)capacità di assumere quello che Erwin Panofsky avrebbe chiamato un "mental-habit". Di fronte a questo scenario, si potrebbe sostenere che obiettivo dell'architettura dovrebbe essere - ancor una volta - non tanto (o non solo) quello di costruire, quanto quello di pensare. La priorità del pensiero si dovrebbe imporre proprio perchè, in un'epoca come la nostra, è lo spazio apparentemente intimo, "segreto", immateriale del pensiero, inteso nella sua facoltà primaria di spazio cognitivo, ad essere la posta in gioco contesa tra le forze oggettive della ri-produzione e le forze soggettive della poetica. è proprio nel punto strategico di questa contesa che s'inserisce il libro di Fabrizio Foti su Le Corbusier. (Pier Vittorio Aureli)
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