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Katsura. La villa Imperiale - copertina
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Descrizione


Il volume è dedicato al complesso architettonico della Villa imperiale di Katsura, costruito nel XVII secolo. Esso si articola attraverso la giustapposizione, all'interno del grande giardino, dei padiglioni per la cerimonia del té e degli Shoin. La purezza dei materiali utilizzati, dal prezioso legno scuro di criptomeria alla paglia dei tetti, il rigore dei principi costruttivi, la semplicità degli elementi strutturali ne fanno l'espressione massima dell'architettura giapponese classica. L'opera propone un apparato iconografico che documenta, con disegni di rilievo metrico e fotografie, ciascuno dei padiglioni che costituiscono la villa.
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Dettagli

2004
21 settembre 2004
396 p., ill. , Rilegato
9788837021290

Voce della critica

Tra i monumenti architettonici più conosciuti del Giappone, la villa imperiale di Katsura ha ispirato numerosi architetti modernisti, giapponesi e non, da Le Corbusier a Manfred Gropius a Tange Kenzō. Il volume interamente dedicato al complesso, oltre a essere un elegante libro d'arte, si propone di scandagliare le dense implicazioni culturali che questo rapporto mise in gioco. Accanto a un superbo apparato iconografico, reso ancora più dettagliato dal corredo completo dei rilievi degli edifici realizzati dall'Agenzia imperiale a partire dal 1982, il libro dispiega infatti un ventaglio di saggi che permette di ricostruire e analizzare uno scorcio della storia culturale del Giappone e, di riflesso, dell'Occidente.

L'opera è caratterizzata da una struttura a doppio strato. Da un lato, si trova il materiale di primo livello: le fotografie di Matsumura Yoshiharu, gli appunti di Bruno Taut, gli scritti di Walter Gropius e di Tange Kenzō. Dall'altro, il metadiscorso su questo materiale (i saggi di Isozaki Arata, Manfred Speidel e Francesco Dal Co) crea un effetto prospettico che investe tanto la sezione iconografica quanto quella saggistica.

La chiave di lettura dell'intera opera è fornita dal saggio di apertura, a firma di Isozaki. Metacritico ma ironico, perché cosciente della finitezza di ogni interpretazione, l'architetto giapponese ricostruisce accuratamente la storia di Katsura e le sue vicende interpretative, mettendone in risalto la straordinaria complessità: frutto di una genesi tormentata, la villa imperiale non è ascrivibile a un unico stile architettonico, né è riconducibile a un progetto unitario o a una sola mente creatrice. Piuttosto, è il risultato di una serie di interventi più o meno estemporanei che mescolarono elementi compositivi decisamente eterogenei.

I modernisti ignorarono questi contrasti stilistici (Taut), o li censurarono come cadute di gusto (Gropius), o li adattarono più o meno forzatamente alle loro teorie artistiche (Tange e Horiguchi Sutemi). Il loro atteggiamento interpretativo li portò ad assegnare a Katsura un valore simbolico: Taut vi trovò realizzata la propria idea di "architettura alpina"; i modernisti giapponesi d'anteguerra la scelsero come bandiera attorno a cui resistere allo stile eclettico neoimperiale (teikan) imposto dal governo militarista del Giappone degli anni trenta. Gli architetti giapponesi in genere vi scorsero un modello a cui ispirarsi per un'architettura che facesse da tramite fra Oriente e Occidente. Essendo stata tanto spesso caricata di valenze simboliche, Katsura ha finito con l'essere analizzata secondo criteri poco consoni alla sua storia: per esempio, da parte giapponese, venne utilizzata nel processo di definizione/costruzione dell'identità nazional-culturale nipponica; da parte occidentale, fu inglobata nel pensiero utopico postbellico di Taut o osservata attraverso l'immaginario orientalista di Gropius. Questa mancanza di profondità storica nel dibattito sull'architettura giapponese non è un caso isolato, né è limitato ai soli architetti. Per esempio, nella sua introduzione, peraltro assai stimolante, agli scritti di Karl Löwith sul Giappone (Rubbettino, 1995), il filosofo Gianni Carchia utilizza la "casa giapponese", dalla struttura asimmetrica, aperta e mobile, come metafora dell'identità flessibile della cultura nipponica in quanto tale.

Queste interpretazioni sono di frequente fondate su generalizzazioni e simbolizzazioni e si condensano in essenze spiritual-culturali sovratemporali, che hanno di fatto contribuito alla formazione dell'identità culturale, politica e religiosa della nazione moderna giapponese, spesso prendendo a prestito, in forme opportunamente adattate, proprio quei miti e pregiudizi occidentali che formano la grande galassia dell'orientalismo. L'ambiguità dei rapporti interculturali e la complessità dei loro meccanismi storici deve pertanto spingere a una certa cautela critica anche nell'interpretare Katsura: piuttosto che trarne spunto per dedurre qualche presunta essenza trans-storica del Giappone, è più fruttuoso ridiscutere i criteri interpretativi usati per comprendere la villa e cercare di riguadagnarne il contesto storico-culturale. Isozaki percorre proprio questa strada e, sottolineando l'importanza della citazione, del riferimento letterario nella cultura aristocratica dell'epoca, reinterpreta Katsura come una sorta di enorme labirinto di suggestioni poetiche.

Anche il dibattito sulla paternità artistica del complesso muta di conseguenza. Taut concepiva la villa come espressione di un genio totalmente libero (a riguardo, si veda il bel saggio di Speidel contenuto nel volume). I modernisti giapponesi cercavano un costruttore che fosse responsabile del progetto e che avesse diretto i lavori. Secondo Isozaki, la nozione di "architetto", che sposa perizia artigianale e creatività artistica, impedirebbe di cogliere il modo in cui Katsura venne costruita. Sarebbe infatti l'idea stessa di "architettura" a essere estranea al Giappone del periodo. Infatti, escludendo committenti e artigiani, all'epoca si potevano individuare solo una sorta di maestri di eleganza, che stabilivano sì un "gusto" (konomi), ma che di solito non dirigevano i lavori né tanto meno progettavano gli edifici. Inoltre, il meccanismo del konomi implicava il ricorso all'imitazione, alla ripetizione, alla stereotipizzazione e pertanto poteva benissimo essere anche la fonte di ispirazione del kitsch.

In ambito estetico, questo "stile di riferimento" pone qualche problema di classificazione: da un lato, non è infatti possibile una netta distinzione fra cultura elevata e cultura popolare, con buona pace dei modernisti che sottolineavano invece la distinzione fra la cultura "vera" (Katsura nella sua presunta semplicità) e la cultura "falsa" (la fastosità del mausoleo di Nikkō). Dall'altro, accostare troppo facilmente questo meccanismo all'orizzonte interpretativo del postmoderno, rischierebbe di far scattare la trappola dell'anacronismo e forse del culturalismo, che nel dibattito contemporaneo fra gli intellettuali nipponici ha talvolta contrapposto un occidente solo moderno a un Giappone "da sempre" postmoderno.

Che il tema non sia affrontato da Isozaki, né da altre voci nel volume è forse l'unica vera limitazione contenutistica dei saggi proposti, i quali, grazie al taglio critico e iconografico del volume, potrebbero tuttavia rappresentare un'ottima occasione per dare il via anche in Italia a un dibattito sulle feconde, irrisolvibili ambiguità della villa imperiale.

Matteo Cestari

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