Un testo accattivante e piacione, già dalla copertina ove campeggia un delizioso Bilbolbul, un eroe della cioccolata. E poi il Theobroma cacao, o "cibo degli dei", e i suoi derivati sono diventati un mito salvifico per una società ormai povera di valori intellettuali, a cui si aggrappano economie locali languenti (meno automobili, più cioccolata?! e come rimpiango "il pane e le rose"). Il libro è un realtà un saggio scientifico, scritto da uno studioso di neurobiologia cognitiva, Gene Wallenstein, attualmente direttore di ricerca alla Pfizer Global Research and Development. Piacere e Pfizer hanno alcune assonanze, visto che il citrato di sildenafil (nome commerciale più diffuso, Viagra) è un farmaco sviluppato dalla stessa compagnia farmaceutica. Ma questo non c'entra e Gene Wallenstein si occupa di ben altro. Il libro è centrato su sull'ipotesi evolutiva che il "piacere" sia il motore degli adattamenti della nostra specie. È un'ipotesi non nuovissima, ma ben sviluppata grazie alle conoscenze delle neuroscienze attuali, capaci di riabilitare la psicologia evolutiva dai suoi eccessi. Partendo dalle esperienze sensoriali, il libro esplora la potenza dell'olfatto nell'evocare ricordi (sempre piacevoli?, mi chiedo), l'effetto accarezzante della musica o del tatto, la bellezza delle simmetrie naturali. L'autore in ognuno di questi casi ricostruisce una lunga catena di eventi, attraverso i quali l'istinto del piacere orienta l'evoluzione del cervello, filtrando le nostre capacità sensoriali e conferendo un netto vantaggio in termini di capacità di sopravvivenza e di riproduzione. Per esempio. parlando del cioccolato: "Nelle prime fasi della nostra evoluzione dallo stadio di ominidi, il sistema oppioide del cervello assunse un ruolo importantissimo nel controllo del nostro comportamento alimentare, soprattutto nel far sì che certi cibi ci sembrassero più appetibili di altri. Fu a quel punto del percorso evolutivo del genere umano che l'attivazione del sistema oppioide e le sensazioni di piacere che ne derivano si trovarono associate al consumo di cibi caratterizzati da un tenore di zuccheri relativamente alto. L'associazione dipese esclusivamente da un'alterazione delle connessioni neuronali: nel sistema oppioide di alcuni ominidi si accumulò una serie di mutazioni che ne rese possibile l'attivazione attraverso i recettori sensibili alla presenza di zucchero. In pratica, il sistema oppioide, che con ogni probabilità fino ad allora si era limitato ad avere un ruolo nella riproduzione sessuale, fu cooptato da fattori selettivi che resero particolarmente vantaggiosa rispetto al costo (sul piano energetico) la capacità di un ominide di trovare e desiderare frutti ricchi di zuccheri". Il viaggio prosegue con un'analisi dell'impatto del piacere sulla nostra vita quotidiana e si conclude con uno sguardo a coloro che prendono un "walk on the wild side", parlando sommariamente di dipendenze e di ossessioni nel capitolo Homo addictus. Il libro nel suo complesso merita attenzione, anche se non sempre convince. Lo stesso uso del termine "istinto" è ambiguo e oggi poco impiegato. L'entusiasmo dell'argomentazione porta poi a qualche approssimazione. Così a p. 81, parlando della percezione olfattiva nel feto, confonde abbastanza le idee. Il feto recepisce alcune sostanze, non perché "la placenta è diventata così sottile", ma perché tali sostanze arrivano al liquido amniotico attraverso il circolo sanguigno e prima attraverso l'alimentazione materna. Se la giovane mamma assiste a una cena a base di bagna càuda, il feto difficilmente ne apprezzerà gli effluvi agliacei. Viceversa, se la mamma imprudentemente ne mangerà a volontà, oppure se inghiottirà pillole all'aglio, come negli esperimenti classici, allora sì che il feto ne avrà contezza! Il libro punta poi su un'espressione, craving, difficilmente traducibile in italiano (il Perché non sappiamo resistere, del sottotitolo è parecchio sbiadito), ma certo molto popolare negli Stati Uniti, dove ogni stimolo può diventare oggetto di bramosia spasmodica, dal sesso all'alcol alla cioccolata. Infine, la domanda principe, affrontata nel capitolo finale, "cos'è il piacere?". Piuttosto sbrigativamente, Wallenstein ricorda come per secoli, filosofi e uomini di fede hanno cercato una risposta. La sua è che "tutte le nostre emozioni, compresa l'esperienza del piacere, sono plasmate dalla selezione naturale per affrontare le sfide e le opportunità che hanno costellato il percorso evolutivo degli ominidi". Eccellente risposta, che dice molto sul "come", poco sul "perché". Una tesi del genere certamente non è completamente errata, ma elude il punto centrale di queste argomentazioni: perché mettiamo assieme il craving per il cioccolato, quello per i feromoni e quello per l'avventura. È coerenza filosofica, corrispondenza neurofisiologica, mera categoria linguistica? Aldo Fasolo
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