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"Camille Deprez non avrebbe accettato di piegare il rigore delle leggi per piacere nelle alte sfere, ma aveva come massima meta l'arte comune agli ambiziosi di armonizzare le sue convinzioni con i suoi interessi. Nel mondo della giustizia aveva sempre goduto di un prestigio che si rifaceva meno alle sue funzioni che alla sua austerità, alla sua integrità. La sua giustizia era temibile. Tuttavia non era odiato, ma rispettato così come temuto. Nel senso del rigore soltanto. Lui si sentiva moralmente autorizzato a mettere d'accordo il proprio dovere con le proprie passioni". Il protagonista di questo bel racconto di Irène Nèmirowsky è un inflessibile procuratore di provincia, interessato tanto alla sua carriera quanto al trionfo delle legge, impermeabile a qualsiasi supplica o corruttela, e insensibile a ogni commozione. Condannato da un tumore in fase terminale, si trova a riesaminare la propria vita con la stessa severità con cui ha sempre giudicato le esistenze altrui, senza fare sconti né a se stesso né a chi si trova di fronte a lui in qualità di imputato. In questo caso, il figlio di un importante e contestato uomo politico: accusato di aver ucciso la moglie per gelosia, il giovane sarà in realtà oggetto di diverse valutazioni morali proprio in conseguenza del potere paterno. Procuratore e assassino si fronteggiano davanti al tribunale definitivo della morte, entrambi colpevoli in modi diversi. L'autrice spinge il lettore a interrogarsi sul mistero insondabile del male, sulla sua inevitabilità esistenziale, sulla sofferenza che provoca sia nelle vittime sia nei suoi artefici, sull'impossibilità del perdono legale, e sulla difficoltà della clemenza. Irène Nèmirowsky scrisse questo racconto (finora inedito in Italia) nel 1935, contemporaneamente al romanzo Jezabel, che pure tratteggia una figura femminile condannata per omicidio, egocentrica e incapace di pietà, in cui l'autrice rifletteva forse il tormentato rapporto con sua madre.
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