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Jaime de Angulo seppe scrivere i suoi mirabili Racconti indiani proprio perché agli indiani d’America dedicò tutta la sua vita, mimetizzandosi quasi tra loro e assumendo la loro sensibilità, «unico bianco che volesse sedersi a mangiare con loro». E così ha potuto osservare da un punto di vista privilegiato il fenomeno inverso: il necessario mescolarsi degli indiani, per sopravvivere, alla civiltà occidentale. Questi Indiani in tuta, che sono i protagonisti del breve e intenso frammento di memorie che qui presentiamo, sono personaggi di straordinaria finezza, in bilico fra due mondi che solo de Angulo è riuscito finora a raccontarci. Dopo Alce Nero parla questa è l’altra epica, più moderna e nascosta, degli indiani d’America in contatto ormai remissivo con la civiltà dei bianchi, passati dalle loro grandi case sotterranee a squallide capanne fatte di bidoni, «piene di spifferi e di buchi nel tetto». Ma sempre aperti a quel «senso del meraviglioso» che aveva attirato de Angulo a condividere la loro vita, guardato con sospetto da molti antropologi, per i quali somigliava troppo a uno di quegli «ubriaconi che vanno in giro a rotolarsi nei fossi con gli sciamani». Eppure, forse proprio per questo, il suo occhio era tanto amoroso e lucido: «Mio Dio, è incredibile, passare dall’ascia di pietra al telegrafo senza fili nell’arco di una vita! Indiani in tuta; no, non c’è nulla di pittoresco in questi indiani ... in questi indiani che raccolgono i rifiuti dei bianchi nei mucchi della spazzatura ai margini della città. I miei indiani in tuta!...».
Indiani in tuta è stato pubblicato per la prima volta nel 1950.
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