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L’antologia che Marco Saya (Buenos Aires 1953, editore e musicista jazz) ha da poco pubblicato, raccoglie una scelta di versi scritti in vent’anni di attività poetica, già usciti in diversi volumi. Testimoniano un percorso di consapevolezza letteraria che si dipana dagli esordi più intimistici, attraverso alcune sperimentazioni di stampo avanguardistico, per approdare al più controllato esito formale della produzione recente. Se nelle poesie dei primi anni duemila temi e toni prevalenti si situavano all’interno della discorsiva e pacata linea lombarda, in seguito la tensione etica sottesa è diventata più severamente esplicita e risentita, evidenziando un deciso rifiuto ideologico verso la cultura postindustriale e gli ambienti sociali e culturali effimeri, conformisti ed esclusivi proposti da un “capitalismo abortito”, da una “democrazia stuprata”. La frenesia del lavoro compulsivo, la rincorsa al successo economico, il meccanicismo di rapporti umani vissuti all’insegna dell’interesse personale, vengono stigmatizzati con un fastidio che sa farsi rabbioso rifiuto: “Le parole mentono. / Nude si coprono”, “E tutti dicono. / Poi tacciono. / Si nascondono. // E tutti pretendono”. Milano, la città in cui Saya vive e lavora da più di cinquant’anni, diventa il simbolo di una disumanità crescente, a cui l’individuo spesso non riesce a opporre resistenza. Chi scrive si abbandona sia a sconfortate confessioni bisognose di un’assoluzione, sia alla ricerca di verità definitive, che aiutino a trovare un ancoraggio esistenziale, in grado di salvare dal “coma della vita”. Gli “incorporei appunti” del titolo segnalano l’intenzione di un avvicinamento discreto alla poesia, dove i versi, scorporati da qualsiasi presuntuosa referenzialità autobiografica, rivendicano la necessità testimoniale di annotare e chiosare tempi e spazi della nostra comune avventura terrena.
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