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Son un po' deluso: se non avete letto Toerless o Holden, d'accordo, puo' affascinare. Ma se no, nonostante la grande raffinatezza, non ci si sente trasportati troppo lontano. Non capisco l'entusiasmo. Pero' si apprezza per la nitidezza della scrittura e per la bella traduzione di Massimo Bocchiola.
Il passaggio dell'adolescenza è descritto con grande adesione e la credibilità di un'autobiografia (come in fondo è). Narrazione abile e avvincente, a volte ansiosa come gli stati d'animo descritti, e di cui si sente forse la mancanza di una maggiore continuità e completezza, come fossero solo appunti di un'opera più estesa. Ma le vicende biografiche dell'autore, morto giovane, e apparentemente senza rassegnazione, potrebbero darne una spiegazione.
Notevole , raffinatissimo esempio di romanzo sull'adolescenza, degno di stare alla pari de "I turbamenti del giovane Toerless". Uno stile iperdecadente luccicante d'ironia, una lingua barocca e a-storicizzata; ci voleva un traduttore straordinario per renderne i mille colori e cambi di registro, purtroppo Massimo Bocchiola lo riproduce in un italiano involuto e stentato, spesso assai sciatto. Forse un lavoro fatto in fretta.
Recensioni
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Speriamo che di Denton Welch si ricominci a parlare. Nel 1971 uscì per Mondadori Voce da una nube (A Voice through a Cloud, postumo, 1950, trad. Gabriella Fiori), l'ultimo romanzo, ormai introvabile, cui Welch lavorò fino al giorno della morte, che avvenne il 30 dicembre 1948. Dopo circa vent'anni, Einaudi pubblicò Viaggio inaugurale (Maiden Voyage, 1943, trad. Maria Luisa Giartosio de Courten), il libro più perfetto di Welch. Oggi, a Torino, lo si trova a metà prezzo sulle bancarelle dei portici. Finalmente Casagrande pubblica il bellissimo In gioventù il piacere del 1945. L'opera narrativa di Welch, se si escludono i racconti, non è più estesa (a parte stanno i diari e i frammenti poetici). Non è poco per uno che morì a trentatre anni.
Maurice Denton Welch nacque a Shanghai il 29 marzo 1915, ultimo di quattro figli. Il padre, inglese, vi dirigeva una ditta. La madre era americana. Dopo la sua morte, Denton tornò in Inghilterra. A sedici anni lasciò il college (Repton) e tornò in Cina con il fratello Paul, come racconta Viaggio inaugurale. Rientrato in Inghilterra dopo un anno, si iscrisse alla Goldmith's School of Art e si diede alla pittura. Il 7 giugno del 1935, mentre andava in bicicletta, un'automobile lo investì. Ne riportò danni gravissimi alla spina dorsale, alla vescica e ai reni che, tredici anni dopo, ne avrebbero determinato la morte (Voce da una nube parte proprio con la scena dell'incidente). Eric Oliver, che visse con lui dal 1943, nel Kent, racconta nella breve premessa dell'edizione mondadoriana quanto fosse costato a Welch lavorare negli ultimi tempi. Il male gli toglieva il fiato, non poteva scrivere per più di quattro minuti consecutivi, dopo di che si accasciava nel letto, incapace di muoversi, preso da una temporanea cecità.
Colpiscono, in un simile autore, la forza espressiva e la perfezione formale. Welch ha trovato subito la sua voce - quella dell'autobiografia - e l'ha usata senza tentennamenti, come se non si fosse dovuto cercare, come se non avesse paura di risultare troppo personale. È un miniaturista, come Jane Austen. Della guerra non gli importa quasi niente: i romanzi non ne parlano e i diari la riducono a qualche scena pastorale - militari al bagno e aerei che attraversano la notte chiara. Gli importa di più parlare di negozi di anticaglie, di vestiti, di chiese campestri. Quella precocità, si dirà, non era istintiva: Welch sapeva di non avere molto tempo. Forse, ma non è solo questo.
La sua scrittura non ha neppure niente di affrettato o di provvisorio. Welch è uno di quegli autori che, prima di scrivere, sanno già quello che devono dire, e non usano la scrittura per capire se stessi. Lui amava le sorelle Brontë e in particolare Charlotte, l'autrice di Jane Eyre, pranzava con Edith Sitwell e prendeva il te con Vita Sackville-West, ma, per come "inventa", può ricordare il Canetti della Lingua salvata. Anche Welch compone per quadri o scene, anche lui evita di giudicare o di interpretare quello che narra, ma, soprattutto, assomiglia a Canetti nell'atteggiamento linguistico: le parole, per Welch, non sono materia da trasformare, ma servono per raccontare, sono "blocchi per frasi". La malattia e una sensibilità tardovittoriana lo mettevano sulla strada dell'estetismo, ma lui fuggì dalla parte della concretezza e del nitore. Welch ha una capacità d'osservazione davvero prodigiosa, ma ha pure la capacità di inserire i dettagli direttamente nel flusso del narrato, senza trasformarli in cammei ornamentali.
Difficile trovare un altro autore in cui il senso della vista sia così attivo. Welch vede tutto, non solo gli oggetti, ma anche le sensazioni. "Vidi il dolore simile a una rugiada adamantina che evapori nel primo sole. Questa volta la mia mente fu invasa dall'idea della rugiada; la sua umida trasparenza di gioiello, il suo tenue vaporare fantomatico che sale e svanisce nell'aria" (Voce da una nube). In In gioventù il piacere la visione si frantuma, come per effetto di una febbre, in un'infinita serie di minuzie imagistiche, che, ingrandite a dismisura, riducono il resto a sfondo: le vertebre che emergono sulle schiene curve, la vena della fronte come una ramificazione d'edera, i petali mischiati di due rose di colore diverso che sembrano un nuovo fiore, il colore dell'unghia che cambia secondo la pressione del sangue, un capezzolo indurito dal contatto con l'acqua. Non si tratta di descrizioni, ma di apparizioni. I protagonisti di Welch vivono in un cosmo di frammenti.
In gioventù il piacere racconta, in terza persona, un'estate dell'adolescente Orvil. Chiuse le scuole, Orvil si ritrova a passare le vacanze con il padre e i due fratelli sul Tamigi (la madre è morta). Il paesaggio fluviale, con tutto quel fango, quel verde marcio, quella pioggia, riflette la giungla psicologica in cui si muove Orvil. La storia è una catena di incontri, di avventure e di sogni, spezzata dal ritorno a scuola. Questo romanzo, come l'appena precedente Viaggio inaugurale, dove il protagonista si chiama proprio Denton Welch e parla in prima persona, dovrebbe occupare un posto d'onore nella storia dei turbamenti giovanili. Welch rappresenta con una microscopia formidabile i riti dell'ansia adolescenziale. Può venire in mente lÆAgostino di Moravia, anche per certe situazioni feriali, ma va subito segnalata una grossa differenza: quello di Welch non è un romanzo di formazione. Il suo Orvil non impara niente, non arriva a nessuna scoperta, vive la sua età e basta.
L'originalità di Welch sta in questo: nel voler seguire passo passo un adolescente per un certo periodo, senza dirci che cosa sia destinata a diventare la sua adolescenza. A lui interessa quello stato assoluto di desiderio, fatto di noia, insoddisfazione, vittimismo, isteria, narcisismo, che non sa riconoscere i suoi oggetti e tenta sempre nuove possibilità di appagamento. Alla fine, niente appaga il ragazzo. Ogni nuova esperienza lo conduce a un ulteriore livello di smarrimento, ma al tempo stesso lo avvicina in modo fatale all'incerta meta. Orvil vuole stare solo, vuole avere un corpo più muscoloso, vuole ubriacarsi, vuole travestirsi, vuole stare nudo, vuole essere Gesù Cristo, vuole morire, vuole impazzire. Insomma, vuole sempre diventare altro, perché non vuole altro che non essere.
Il suo masochismo, che emerge in modo chiarissimo nella parte centrale del libro, quando si lascia legare e schiaffeggiare dall'uomo del capanno, è un altro modo della sua noluntas - quel cedere all'altrui volontà, anche a costo del dolore fisico, che non è affatto un rinunciare al desiderio. Volontà e non autorità, si badi: Orvil non riconosce l'autorità - odia la scuola (come Denton), odia il fratello maggiore, tollera a fatica il padre. Tutto quello che fa lo fa perché vorrebbe non fare; perché lui desidera allo stato più puro - senza obiettivi. Ogni suo gesto sta al posto di un altro gesto. È come avere sotto gli occhi i comportamenti di un nevrotico, o un testo codificato: entrambi operano per sostituzioni, non parlano mai della cosa. E qual è la cosa?
Sarebbe sbagliato accusare questo personaggio di inconsapevolezza, di codardia o di indecisione. È chiaro che, adulto, Orvil andrà con gli uomini anziché con le donne: lo si capisce da come guarda il corpo maschile e dal simbolismo fallico di certe descrizioni, che in Viaggio inaugurale è ancora più spinto (i libri di Welch, negli anni quaranta e cinquanta, occupavano gli scaffali proibiti delle librerie, insieme alle poesie di A. E. Housman o ai romanzi di Forrest Reid; oggi il suo racconto When I was Thirteen appare addirittura nel Faber Book of Gay Short Fiction). Il punto non è questo. Solo una lettura preconcetta potrebbe vedere nel racconto delle sue avventure fluviali una ricerca dell'identità. Orvil ha un'identità precisa, se proprio dobbiamo attribuirgliene una, e questa sta nel rifiuto di qualunque ruolo precostituito: l'omosessualità ne è parte, anzi ne è la fonte. Orvil è omosessuale dal primo momento, anche se non viene dichiarato; lo era già prima che il libro venisse scritto (Welch stesso non fece mai mistero della sua omosessualità). Il narratore neanche per un attimo ci fa credere che quel ragazzino di diciassette anni sia attratto dalle donne o abbia confusione in testa. Proprio quel rifiuto, che discende dritto dall'omosessualità, struttura il mondo e determina le percezioni di Orvil.
Perciò, la realtà di In gioventù il piacere, come quella di Viaggio inaugurale, è una realtà minacciosa, invitante ma piena di gorghi. L'atmosfera è carica di attesa e, quindi, anche di sensualità. Sotto la pellicola della vita normale preme un deformante intrico di forze aggressive, di lusinghe, di sirene, che possono erompere da un momento all'altro e perfino distruggere (in Viaggio inaugurale in più punti compare la morte stessa: una testa mozza e divorata dagli insetti, due che annegano, un'altra testa di morto che si intravede attraverso la fessura di una bara). In tanta proliferazione di stimoli e di attacchi ci si aspetterebbe che il personaggio perdesse consistenza, di disgregasse. Invece non è così. Orvil contrappone ai fantasmi della smania una personalità granitica. Agli assalti dell'avversario, che è dappertutto, lui risponde con una controffensiva che ha dell'eroico. In una scena suprema, che confonde eucaristia, copula e vendetta, lo vediamo perfino bere il sangue dell'assalitore. È uno dei tanti trionfi della giovinezza che il disobbediente Welch ci ha saputo raccontare - uno dei tanti vertici del libro.
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