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La narrazione si svolge nel labirinto di isolotti (le Sundarbans) disseminati nella baia del Bengala. Quivi giunge Piyali Roy, biologa marina, sulle tracce di una specie di delfini quasi scomparsa, l’Orcaella brevirostris (Gangetic dolphin). Le sue (dis)avvventure s’intrecciano con le vite di Kanai, un business man di New Delhi di passaggio nella regione a casa della zia, e di Fokir, un povero barcaiolo che sarà al servizio di Roy nella caccia al delfino fantasma. Il romanzo narra gli eventi in queste isole, semi-sommerse ogni sei ore in occasione delle alte maree e la grama vita degli abitanti, in abitazioni fatiscenti, con scarso accesso ad acqua potabile e a cibo, tra pericoli di assalti da parte di tigri e coccodrilli. Il filo del racconto si snoda su brevi capitoli (5-7 pp) dedicati, in modo alterno, a Roy o a Kanai. A metà del romanzo è collocata una serie di capitoli dedicati alla lettura di un diario segreto dello zio di Kanai, un comunista idealista quivi trasferitosi con la moglie, con la missione di migliorare la vita dei nativi (sarà un fallimento). Il racconto procede a ritmo lento, forse fin troppo, quasi a seguire il lento muoversi delle maree. Questo flemmatico passo nel procedere si adatta meglio alla mentalità del lettore orientale ma per noi occidentali diventa spesso penoso e di scarso interesse. Per quanto l’ambiente dell’arcipelago sia descritto in modo sontuoso, i personaggi restano chiusi nel loro mondo privato e comunicano ben poco tra loro. La biologa sembra quasi egoista, troppo introspettiva e dedicata in modo smisurato alla sua ricerca, con scarsa preoccupazione dell’ambiente e delle persone che la circondano. Per ben 400 pagine prosegue la narrazione, con scarsi avvenimenti, fino al cataclisma delle 20 pagine finali. Un’attesa troppo lunga, per il lettore, per assistere a questo emozionante culmine. Tanto valeva leggersi Typhoon di J. Conrad, novella breve e fulminante su un vascello e la sua ciurma in un’immane tempesta in mare aperto.
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