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Negli anni Trenta dell'Ottocento, un suddito della teocrazia pontificia deliberava, con orgoglio e solennità, di «lasciare un monumento» della plebe di Roma. Lo studio appassionato della letteratura italiana ed europea lo aveva spinto a documentare, con l'obiettività dello «scienziato» e la forza polemica del «cittadino», quella realtà «abbandonata» e «senza miglioramento», nella speranza di portare un raggio di luce nelle tenebre di «un'alba da fine del mondo». Ma nella «discesa agli inferi» di un'esperienza poetica ventennale e clandestina, si imponeva il dramma di un intellettuale lacerato dal conflitto irrisolto tra ragione e religione, tra l'«ottica della distanza» dell'antropologo e la contemplazione prelogica del poeta ammaliato dal fascino stregonesco del primordio popolare. La lezione degli illuministi consentì a Giuseppe Gioachino Belli di comprendere con chiarezza le dinamiche del proprio tempo, con la sua crisi di valori e le sue insanabili contraddizioni, ma allo stesso tempo gli rivelava una disperata assenza di prospettive praticabili proprio nel momento storico di una cesura paradigmatica, di uno scontro di «fedi opposte» che assumeva i connotati della guerra di religione e riconduceva ogni attesa ad un vero e proprio aut-aut. Consapevole che al mondo non sarebbero restati che «cattolici od atei», che la Chiesa, in assenza di un cambiamento profondo, sarebbe stata spazzata via per sempre, Belli ha lasciato, con i suoi 2279 sonetti romaneschi, la testimonianza disperata di un mondo alla deriva, e dissolvendo nel riso un orrore metafisico ha proiettato una pagina della storia in un orizzonte esistenziale ed ontologico.
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