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è un bel libro.sto aspettando una nuova pubblicazione.spero di trovarlo presto nelle librerie.grazie
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L'American Chemistry Council, che rappresenta le maggiori industrie chimiche americane, proclama con orgoglio malcelato che il giro d'affari chimici (the business of chemistry) raggiunge i 450 miliardi di dollari annui. Di questi all'incirca 190 riguardano l'industria farmaceutica. Nel 2001 l'industria farmaceutica americana ha speso, per la sola pubblicità rivolta direttamente al consumatore, 2,7 miliardi di dollari, ai quali si devono aggiungere più di 11 miliardi spesi per la distribuzione di campioni gratuiti. Se si addizionano a queste cifre quelle sostanzialmente analoghe delle rimanenti grandi industrie farmaceutiche inglesi, tedesche e soprattutto svizzere, ci si può fare un'idea della colossale potenza economica che la popolazione generale fatta di sani e meno sani, di bambini, di adulti e di anziani, di malati che vorrebbero guarire e di sani che si potrebbero ammalare si trova di fronte, in momenti particolarmente delicati dell'esistenza. Il bilancio annuale di una grande corporation farmaceutica che non di rado ha pure considerevoli interessi in attività parallele, come quelle agroalimentari, arriva ad essere equivalente se non superiore a quello di una nazione di media grandezza.
Poiché oggigiorno la durata e l'esito delle malattie che affliggono l'umanità, (e, per quella frazione di malattie per la quale esiste un vaccino, anche la loro prevenzione), dipendono in larga misura dalla disponibilità, dall'uso e dall'efficacia che hanno i prodotti dell'industria farmaceutica, dobbiamo essere rassicurati dall'indubbia efficenza commerciale di queste grandi corporations o dobbiamo sentirci invece inermi e indifesi nei confronti del dominio che esse sembrano esercitare, con scarso controllo, sul pianeta salute, nel quale si mescolano indissolubilmente malattia e cure?
Naturalmente fra la grande industria e il malato-paziente-cliente c'è il grande mediatore che è il medico, deputato a tradurre le sofferenze e le confidenze dell'umanità resa fragile dalla malattia e dalla paura in un percorso logico che permetta di valutare obiettivamente, valendosi quindi delle conoscenze scientifiche, il miglior modo di mettere beneficamente a disposizione del malato i prodotti dell'industria farmaceutica. Ed è, nello stesso tempo, figura deputata a instaurare un dialogo rassicurante, valendosi della sua capacità di comprensione e compassione nei confronti dell'individuo bisognoso di aiuto. A questo mediatore, ai tanti medici "che hanno a cuore scienza e conoscenza", Marco Bobbio dedica il suo informato, intenso e diffuso volume su medicina e industria, nella forma, resa esplicita nel titolo, di un memento per chi già esercita la professione medica e di una dichiarazione d'intenti per chi voglia dedicarvisi.
Il grande merito di Bobbio è di aver affrontato, in modo diretto ed esauriente, un argomento vasto e complesso che fino a ora nel nostro paese aveva richiamato l'attenzione, spesso distratta, di una parte degli addetti ai lavori, interessando il grande pubblico solo in occasione di scandali clamorosi, come quello che ha coinvolto recentemente la Glaxo. Dopo la pubblicazione di questo volume nessun medico potrà azzardarsi a dire che non si rendeva conto di quanto alcuni comportamenti, primo fra tutti la scelta di una terapia o di un particolare medicinale, possano essere condizionati, più o meno surrettiziamente, dalle corporations farmaceutiche; inoltre coloro che non ignoravano il condizionamento al quale erano sottoposti, non potranno non rivedere le loro posizioni e le loro convinzioni.
Il medico di famiglia che segue i consigli interessati dell'informatore farmaceutico o il grande clinico che si lascia lusingare dall'invito a presiedere un importante colloquio internazionale sponsorizzato da un'industria farmaceutica, e che dichiarano che le loro scelte terapeutiche sono interamente autonome, esprimono una fragilità della capacità critica, abbinata in questo caso all'abdicazione da una vigile coscienza professionale: si tratta di un meccanismo analogo a quello che regola gli effetti nefasti della dittatura, e cioè di indurre in coloro che la subiscono la convinzione di essere liberamente consenzienti.
Se il medico è colui che media i rapporti fra industria farmaceutica e malato, l'informatore farmaceutico fa da cinghia di trasmissione fra industria produttrice e medici. Dal momento che questi ultimi sono poco inclini ad aggiornarsi sui progressi della ricerca biomedica e sulle innovazioni della pratica clinica, gli informatori diventano la fonte principale, non di rado l'unica, di informazione. Essa deve essere presentata senza urtare la suscettibilità del medico, che spesso non vuole apparire ignorante, attraverso un linguaggio gradevole e copertamente adulatorio, per lo più abbinato alla presentazione di un omaggio o di un piccolo regalo.
Se non proprio dipinti come piccoli corruttori, gli informatori farmaceutici, che sono diverse decine di migliaia in Italia, pur non godendo di un'immagine positiva, non sono tuttavia la causa del rilassamento morale di molti medici, ma semmai la conseguenza. Costituiscono una lobby in formato ridotto, fanno una vita piuttosto dura, ognuno di loro può arrivare a incontrare fino a dieci medici al giorno e non sono retribuiti generosamente dall'industria farmaceutica, alla quale sono sicuramente utili.
Un punto che Bobbio non tratta forse a sufficienza è la scomparsa dell'industria farmaceutica di stato. In un campo così importante come la sanità, sarebbe logico e augurabile che lo stato, a garanzia dei suoi cittadini, potesse esercitare, attraverso un'autonoma capacità di ricerca e un'altrettanto autonoma capacità produttiva, un ruolo di promozione e di controllo effettivo di quanto si fa o si dovrebbe fare in difesa della salute. Stiamo invece osservando e subendo un progressivo smantellamento degli ultimi baluardi di resistenza all'invasione massiccia delle corporations farmaceutiche, con la conseguente erosione dei sistemi sanitari nazionali e la privatizzazione crescente dell'assistenza.
Dopo l'irruzione iconoclasta di Ivan Illich che cominciava il suo pamphlet (Nemesi Medica, Mondadori, 1977) con la sentenza "la corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute", dopo le battaglie condotte da Giulio Maccararo per una nuova visione della ricerca scientifica (Per una medicina da rinnovare, Feltrinelli, 1979), possiamo ora sperare che un risanamento moralizzatore si sviluppi dall'interno dell'establishment scientifico?
Bobbio sostiene che "nessuna società medico-scientifica può oggi fare a meno di elargizioni da parte dell'industria" e afferma inoltre: "questo non é male di per sé, ma é un vincolo che può, se non viene ben governato, condizionare in modo determinante l'attività delle società erodendo i fondamenti morali e la credibilità di fronte ai medici, in primis, e alla società civile in generale". Non si tratta perciò di impedire o proibire le elargizioni e di rescindere i legami troppo stretti fra industria e ricerca biomedica, ma di rendere i rapporti fra finanziatori e finanziati chiari ed espliciti.
Come si può vedere siamo ben lontani dal clima in cui operavano Giulio Maccararo e nasceva il movimento di Medicina Democratica. Bobbio, che si batte con vigore per moralizzare la pratica della medicina e per difendere i diritti del malato, arriva alla sconsolata conclusione che è praticamente impossibile trovare un esperto che non sia coinvolto in conflitti di interesse. Tali conflitti - è questo il compromesso al quale sono giunti i direttori delle maggiori riviste scientifiche al mondo - devono essere resi espliciti ai lettori, lasciando però ad essi il compito di giudicare se vi sia o meno un'interferenza di interessi economici nella presentazione dei risultati scientifici.
Il lettore che il più delle volte, pur non essendo del tutto sprovveduto, ha una competenza minore rispetto all'autore dell'articolo, deve quindi giudicare una situazione e un rapporto del quale conosce solo una parte dei termini. Per fare un esempio, nell'agosto 2004 è comparso sul "New England Journal of Medicine" un editoriale a firma di una nota figura della Harvard Medical School sulle mancate opportunità della ricerca sulle cellule staminali embrionali, a causa delle restrizioni imposte dal presidente Bush. L'opinione e le argomentazioni dell'autore dell'articolo a prima vista sembrano pienamente condivisibili, ma quando il lettore legge la breve nota che, per la nuova clausola sulla trasparenza, è inserita alla fine dell'articolo (e informa sul fatto che l'autore non è soltanto parte dello staff della molto rispettabile Harvard School, ma anche del consiglio di direzione e ha la priorità sull'acquisto di azioni di una ditta che conserva il sangue del cordone ombelicale e fa ricerca sulle cellule staminali, oltre ad essere consigliere di una non meglio identificata ditta MPM capital), alla sua mente si affaccia un dubbio: la posizione di chi scrive è diventata più credibile o più sospetta?
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