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Anno edizione: 2019
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"Illustre signora, mia cara amica, questo piccolo libro che io vi dedico non ha per me importanza di arte (...) Fu scritto a Roma nel gennaio del 1891, dopo quindici mesi di completo riposo intellettuale (...) Mi pareva che tutte le mie facoltà di scrittore si fossero oscurate, indebolite, disperse (...) Ecco, mia cara amica, la genesi di questo piccolo libro che io vi dedico". In pratica, detto papale papale e visto che l'autore si trovava a Roma, ti sto dedicando 'na sòla. Del resto, da uno come D'Annunzio ci si può aspettare di tutto, (i)sòle comprese... Che si sia trattato della sindrome da opera seconda? Dopo un capolavoro o, comunque la si pensi, un grande successo come "Il piacere" (1889), un passo falso ci può anche stare. Sta di fatto che, da grande amante di D'Annunzio quale sono senza alcuna vergogna, devo ammettere che del suo secondo romanzo, "Giovanni Episcopo", si poteva anche fare a meno. Tuttavia della (breve) vicenda dell'impiegato protagonista ed eponimo del libro, che confessa in prima persona una sequenza quasi fantozziana di sventure culminata in un delitto finale tanto prevedibile quanto brevemente descritto, salvo almeno due cose: da un lato, come per gli studenti mediocri, l'impegno dell'autore per cercare nuovi stimoli e un nuovo stile dopo il successo dell'opera prima e, soprattutto, la sua ammissione di non aver studiato (quanti scrittori avrebbero oggi il coraggio di scrivere una dedica così autocritica?); dall'altro il fatto che, trattandosi pur sempre di un grande scrittore, qua e là qualche tocco di bravura emerga nella mediocrità generale dell'esperimento. "C'è chi cammina in mezzo a un popolo come in mezzo a una foresta d'alberi tutti eguali, indifferente; ma c'è qualcuno, continuamente ansioso, che cerca in ogni volto la muta risposta a una muta domanda. Per costui non ci sono su la terra stranieri." "Ciro, Ciro, figlio mio!" nella terzultima pagina del romanzo è invece involontaria prefigurazione di Sandra Milo. Povero Vate...
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