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Gigi, deliziosa quindicenne colta sul punto di sfilarsi i suoi vestiti da bambina, ormai provocatori, e allevata da due donne che parlano dei gioielli delle cocottes con la stessa gravità con cui un agente di Borsa soppesa le azioni delle grandi compagnie, apparve nel pieno della guerra, nel 1942, e si può dire che fu l’ultima creatura di Colette a evocare qualcosa già con il suo nome: una grazia acerba e l’intreccio di una fiaba moderna. Hollywood si incaricò poi – coalizzando Leslie Caron e Maurice Chevalier, Vincente Minnelli e Cecil Beaton – di tingere la storia di rosa pastello. In Colette, invece, i colori sono misti, i sapori a volte pungenti. Non c’è solo la fiaba del libertino convinto e della quasi bambina che finiscono per incontrarsi nel vero amore (e si può ricordare che nel ruolo di Gigi esordì sulle scene di Broadway una giovanissima Audrey Hepburn). C’è anche una magistrale tessitura di chiacchiericcio Belle Époque. La storia di Gigi era realmente accaduta negli anni Venti. Ma Colette la spostò in quell’anno in cui «le automobili andavano di moda alte e leggermente svasate, per via degli immensi cappelli lanciati da Caroline Otero, da Liane de Pougy e da altre signore assai note nel 1899, e quindi si ribaltavano mollemente in curva». Come a volerla situare proprio al centro di quel periodo in cui, guidata dalla mano sapiente e crudele di Willy, Colette era diventata una impeccabile conoscitrice di quel demi-monde parigino a proposito del quale scrisse: «una volta ammessa una diversa angolazione morale, nulla era meno sregolato di quell’ambiente: quanto rigore nelle linee di cattiva condotta, quanta immutabilità nei segni del successo e della potenza, quanta burocrazia nei piaceri».
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Commedia leggera e genuina, piuttosto moderna per il periodo in cui è stata scritta.
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