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scheda di Villari, A., L'Indice 1996, n.10
Rapidi appunti, "consigli a se stesso", ricorrenti domande: sono questi i "diari" di Gianni Maimeri, scritti tra il 1903 e il 1917 con tutto l'ardore - e le contraddizioni - di un pittore giovanissimo e irrequieto. Distante ormai dalla sensibilità del tardo Ottocento ma disinteressato alle avanguardie, antiaccademico ma attento frequentatore di musei, polemico nei riguardi della poetica impressionistica, dei "rebus" simbolisti, della "falsa ingenuità" di futuristi e cubisti, Maimeri crede in un'arte figurativa ma non realista, basata su osservazioni concrete passate attraverso il filtro dell'immaginazione, su emozioni soggettive. La sua pittura si riallaccia così a un filone intimista e discreto tipicamente lombardo, che solo la critica più recente giustamente rivaluta. Alla teoria di matrice idealistica ("arte è una facoltà, o una meta") si affiancano - ed è un continuo spronarsi - gli studi di natura tecnica e formale, gli esperimenti sul colore (il tema è ricorrente, Maimeri aprì addirittura una piccola azienda produttrice di pigmenti), sulla luce, sulla vibratilità dell'atmosfera, alla ricerca di una "completa libertà di impressione" che non sia mai semplicistica improvvisazione. Equilibri difficili da conservare: se sull'arte Maimeri "riflette", non mancano pagine di intensa emozione sensuale, mentre altrove la scrittura, sempre asciuttissima, si fa dolorosa, sfugge al controllo. E, oscillante tra autodisciplina e passione, scrive in uno dei suoi "dogmi": "Dove cessa l'emozione, fermati".
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