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George Grosz. Gli anni berlinesi. Ediz. inglese
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1997
1 gennaio 1997
224 p., ill.
9788843560875

Voce della critica


recensione di Versari, M., L'Indice 1998, n. 2

Diciamo subito che uno dei maggiori pregi del libro di Jentsch è costituito dall'aver proposto - assieme, ovviamente, alla presentazione di Grosz grafico e pittore - uno spaccato storico che ripropone altresì il fermento artistico di un'epoca in cui l"'istituzione arte", a partire dalla sua estrema autonomizzazione, oscilla fra la radicale autonegazione" "e il mantenimento di uno spazio separato che le consenta il confronto con la "vita", denunciandone le aberrazioni.
Molto opportunamente Jentsch segue dunque la parabola di Grosz anche alla luce della sua produzione letteraria, che spesso contiene, oltre alle annotazioni biografiche, importanti riflessioni estetiche, il cui filo conduttore è appunto il rapportarsi costante dell'uomo e dell'artista alle vicende del suo tempo. La menzione di fatti e uomini politici, degli amici, i versi "prosaici", le diagnosi sul presente e le profezie apocalittiche, che quasi fungono da commento al lavoro grafico e pittorico, fanno della vicenda artistica e umana di Grosz un emblema del rifiuto sempre più deciso di un sistema e di una mentalità: quella tedesca bellicista, ottusa e arrogante, con cui l'artista non vorrà mai identificarsi, non da ultimo ritoccando il proprio nome e cognome.
Portato al disegno fin dall'infanzia, Grosz inizia con la copia, da illustrazioni o dal vero, o dando contorno alle fantasie ispirate da libri d'avventura (James Fenimore Cooper e Karl May). Il circo è uno dei suoi soggetti preferiti, cui si ispirerà anche in seguito per esprimere la dimensione tragicomica del reale o l'illusionismo acrobatico della politica, per denunciare l'essenza miserabile di un mondo chiuso in un cerchio infernale e visto dalla prospettiva simultaneamente ravvicinata e a distanza del trapezista.
Negli anni dell'Accademia di Dresda si accosta alla pittura di Degas, Munch, Toulouse-Lautrec, della Brücke e dell'amico Otto Dix. Nel 1912 inizia la carriera di caricaturista, in cui intravede la possibilità d'intervenire fattualmente nella realtà, con l'esigenza del "consapevole moralista", e con quest'attività giornalistica egli si sente altresì affine agli artisti che lavorano per un "bisogno" e uno "scopo". Ecco che l'arte di Grosz parte quindi anche dal postulato moderno secondo cui l'artista entra nel circuito produttivo alla stregua di ogni altro lavoratore emancipato dal mecenate, mettendo l'arte a servizio della vita, con l'implicito rifiuto dell'"auraticità" dell'opera.
A Berlino, sempre nel 1912, conosce le opere di Cézanne e Van Gogh, Picasso e Matisse, e il paesaggio urbano vive nella sua grafica grazie a una felice mescolanza di esperienza e finzione. In quest'anno di svolta entra anche in scena il tema erotico: despiritualizzato, violento e mercenario.
Gli anni bellici, lungi dal coinvolgerlo nell'esaltazione mitologica della guerra, sanciscono piuttosto la sua visione negativa dell'uomo, sia carnefice che vittima. "Gli uomini sono porci", scrive Grosz, e tuttavia il gesto crudo e dissacratorio della grafica di questo periodo non manca, per contrasto, di una disperata e inconfessata ansia di redenzione.
Dal 1916 inizia la collaborazione di Grosz al Malik-Verlag e alla rivista "Neue Jugend", nonché la sua annosa vicenda con la censura. Sono di questa fase le prime manifestazioni Dada e gli incontri di lettura con autori di area espressionista come Joannes Robert Becher, Albert Ehrenstein, Else Lasker-Schüler.
Dal 1915 inizia la notorietà di Grosz a Berlino, grazie alla pubblicità fattagli dal critico d'arte Teodhor Däubler: "Quando nel 1915 Grosz viene congedato dal servizio militare (...), inizia una fase creativa di tre anni, durante i quali egli produce la maggior parte dei suoi capolavori giovanili", dalla pittura a olio all'acquerello, al disegno, alla grafica e alla poesia. Soggetti principali sono l'inferno metropolitano - pur vissuto da Grosz in un'ambivalenza di amore e odio -, la corruzione, la mercificazione delle masse, l'amore prezzolato (sono i temi di poesie come "Gesang an die Nacht" o" Nachtcafé"), o scene apocalittiche dove Berlino è assimilata a Babilonia. L'uso espressionistico del colore - ma non ci sono concessioni a smarrimenti estatici -, il simultaneismo prismatico "à la" Delaunay, la precisione del disegno, unita alla frantumazione delle forme dell'arte d'avanguardia mostrano una realtà smontata e riassemblata secondo la logica dell'intrinseca complicità fra uomini, cose e potere. L'ultima fase, prima del 1933 (anno dell'espatrio di Grosz negli Stati Uniti), passando attraverso una sperimentazione metafisica sulla scia di Carrà e De Chirico, vede l'approdo di Grosz agli stilemi della Nuova Oggettività (1925). In questo momento produttivo sembrano convogliarsi le esperienze precedenti: la linea sinuosa "à la" Toulouse-Lautrec, la messa in rilievo realistica del dato anatomico fino alla sua esasperazione caricaturale o, viceversa, la riduzione del tratto nello stile della macchietta fumettistica; e, ancora, scomposizione e accumulo d'immagini.
Non a caso, come osserva
Jentsch, le opere di Grosz erano presenti all'esposizione organizzata nel 1923 a Mannheim da Hartlaub, dal titolo "Lo sviluppo dell'arte dall'espressionismo alle tendenze contemporanee".
In effetti Grosz attraversa varie tendenze, da un lato senza adagiarsi in una soluzione pittorica definitiva, dall'altro conservando una sua identità che lo sottrae, come si evince dal discorso di Jentsch, alla perentorietà delle etichette. E l'identità di Grosz è reperibile proprio nella sua intenzione, polemica e denunziatoria fin dagli esordi. A questo forse si deve il permanere nella sua arte dello spunto realistico, senza che essa indulga a entusiasmi metafisici o avventuristici: del futurismo non accoglie l'infatuazione macchinista e il piglio guerriero, dell'estremismo avanguardista (pensiamo soprattutto al Dada) coglie l'intendimento dell'arte come "Revolutions-Kunst" (non come "Kunst-Revolution*), nonché la sua "Entdifferenzierung "nel senso di una pratica politica, senza tuttavia arrivare alla negazione totale del "sistema" arte, affidandola alla categoria del caso; la sua opera si muove pur sempre all'interno di uno statuto estetico. Grosz d'altra parte, in consonanza con gli esiti del dadaismo berlinese, imbocca, navigando nelle acque della politica comunista, la strada del neorealismo politico-sociale, ribadendo i presupposti da cui aveva preso le mosse. Sono quindi il mondo e la storia al centro della sua produzione, e la loro deformazione grottesca ha funzione smascheratrice e profetica. Parlando dei suoi "fogli" in una lettera a Herzfelde del 1933, egli mostra del resto la consapevolezza della sua opzione artistica: "Oggi essi sono veri più che mai (...) e verranno mostrati in futuro, in tempi - scusami - più umani, come oggi si mostrano i fogli di Goya".

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