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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 1999
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La recensione di Ibs.
"L'urgenza di scrivere ogni giorno, per 365 giorni, costringe i commentatori a dimenticare che, a forza di risolvere quotidianamente il problema dell'indomani, arriverà un ultimo giorno in cui il problema dell'indomani sarà ormai il problema dell'anno dopo. Un problema che non c'è motivo di cominciare a risolvere con così inutile e azzardato anticipo."
Il più facile errore in cui può incorrere il lettore di questo Gente di Bogotá, una consistente raccolta di scritti giornalistici di Gabríel García Márquez del periodo 1954-1955, è il compiere una assillante ricerca dei temi che saranno propri di Gabríel García Márquez scrittore. Se, come si suggerisce nella ricca prefazione di Gilard, è possibile già intravedere tematiche successive, è altrettanto possibile godere delle capacità di cronista, di giornalista di questo autore. Ampio spazio nella raccolta è dato alle critiche cinematografiche che in modo continuativo vennero scritte per "El Espectator" e che rappresentano forse l'aspetto meno conosciuto in Italia dell'attività dello scrittore colombiano. Anche se queste recensioni non paiono dimostrare una grande competenza tecnica, l'interesse nasce da alcuni elementi: la volontà "politica" di favorire la nascita di una cinematografia nazionale, l'interesse particolare dimostrato per i registi e la produzione italiana dell'epoca, il rifiuto della cultura hollywoodiana sia per quanto riguarda la tecnica narrativa che la poetica che la sottende.
Una cinematografia nazionale significa, in quegli anni, l'affermazione di una identità culturale, e nel tempo stesso l'orgoglio per quanto la cultura latino-americana era in grado di affermare a livello internazionale. Nulla, più del cinema, sembra anticipare il concetto di globalizzazione culturale, o di "grande villaggio", neppure la letteratura, in quanto non fruita così vistosamente dalle masse popolari, né così facilmente esportabile da una parte all'altra del mondo. Non è un caso infatti che vengano recensiti film europei, nordamericani e non solo sudamericani, senza ostacoli di comunicazione con lo spettatore colombiano. Se non sempre il "fiuto critico" di García Márquez appare condivisibile, soprattutto perché tende a liquidare con un aggettivo la parte più prettamente filmica del prodotto, l'interesse è notevole per quanto riguarda il suo giudizio nei confronti dei contenuti o delle emozioni che i film propongono al pubblico. Di certo molto amato è il periodo del neorealismo italiano: la sensibilità politica già così evidente, i protagonisti estranei al divismo dominante, la verità fotografata e offerta senza pietà agli spettatori hanno di certo affascinato il giovane giornalista. Mi soffermerei però sull'analisi da lui compiuta del film-culto di Vittorio De Sica, Miracolo a Milano. Qui si mescolano, si fondono due elementi, il realismo della marginalità dei barboni, degli esclusi, delle baracche periferiche, e la magia, la favola, il sogno salvifico. Proprio ciò che molta critica considera, pur nell'ammirazione davanti al genio del regista, quasi un tradimento sentimentale, viene invece visto come perfezione narrativa in quanto capace (dalla perfetta sintesi di tutta la letteratura fantastica) di narrare con eccezionale "forza umana" una storia di "cruda miseria" e di "sogno incredibile". La passione espressa nella recensione mostra una totale sintonia tra esperienza estetica ed etica del regista e dello sceneggiatore del film e del recensore stesso.
Il terzo aspetto di questa produzione giornalistica riguarda l'atteggiamento dei confronti del cinema di Hollywood. Viene criticato sia l'utilizzo costante del personaggio-divo, il primo piano che esclude ciò che circonda il protagonista, la minor cura del particolare, della "cornice", sia la tesi "colonialistica", di "americani portatori di verità e di libertà" che tanta produzione dell'epoca propina.
Ma sono i réportages, le cronache, le biografie di campioni sportivi, le pagine più affascinanti da leggere in questo volume. Durezza e crudezza nella descrizione delle condizioni di vita di un popolo addestrato alla miseria, abituato alla pazienza, alla sopportazione di eventi naturali catastrofici e a malversazioni storiche, sensibilità nell'"entrare nel personaggio", nel parlare con la sua voce e con il suo cuore, nell'interpretare i sogni, le aspirazioni, le delusioni, le meschinità e le grandezze di un uomo qualsiasi che sa raggiungere quelle vittorie che gli permettono di uscire dalla povertà e dall'anonimato. È questo il Gabríel García Márquez che vale la pena leggere per sé, in quanto grande giornalista, non solo in quanto premonizione di grande scrittore. E se il giovane cronista, alle prime esperienze di scrittore, era stato invitato a fare maggiore affidamento sulle sue doti giornalistiche più che a quelle di narratore, e se pur siamo grati che questo invito non sia stato accolto (in quanto la lettura di opere quali Cent'anni di solitudine resta fondamentale nella formazione culturale e affettiva di molti di noi) ugualmente capiamo l'ammirazione di chi leggeva pagine come quelle relative ad esempio alla Catastrofe di Antioquia.
A cura di Wuz.it
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