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Bensoussan, storico onnivoro, ovvero a tutto campo, animato da una passione intellettuale totale, al limite del desiderio cronofagico (i veri storici sono "orchi" del tempo, volendolo divorare), cerca di fondare un dispositivo d'interpretazione del fenomeno "genocidio" inteso non come un evento malgrado la modernità, ma a essa, semmai, in più modi interconnesso, fosse anche solo attraverso il capovolgimento dei suoi paradigmi illuministici. Per raggiungere questo obiettivo si adopera in un'archeologia culturale della catastrofe, che demanda a molti indici, identificando nel rinnovarsi di quella costruzione che si chiama "questione ebraica" un punto di svolta nella definizione delle identità contemporanee. In ragione di ciò la sua riflessione sullo sterminio risulta un percorso analitico possente, ma autoconvalidato, ponendosi alla ricerca di una coerenza totale che, se può risultare persuasiva, induce anche a ritornare sempre sulle medesime categorie antropologiche. Rimane il fatto che il libro regge alla prova della lettura. Il terreno di riflessione è l'"Europa", il tempo è quello di un millennio cristiano, l'indice di riferimento è la paura, alla quale dedica l'intera terza parte del suo studio. Dall'interazione fra queste tre dimensioni l'autore fa derivare un potente affresco sull'immaginario razzista, sulla sua cogenza, sulla sua persistenza e, forse, ineluttabilità. Il terreno su cui Bensoussan si esercita è in rapporto alla nazionalizzazione, ossia alla costruzione di uno spazio politico la cui inclusività si celebra sull'espulsione non dell'alterità, ma di ciò che è vissuto come alterazione. Ancora una volta, lo storico francese rivela la sua vocazione alle grandi sintesi, facendo l'occhiolino a Mosse e a Braudel.
Claudio Vercelli
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