Philippe Forest esordisce nella narrativa nel 1997 con Tutti i bambini tranne uno (Alet, 2005); fino ad allora è noto come professore universitario di letteratura francese e comparatista, autore tra l'altro di un saggio su Philippe Sollers e uno su Albert Camus, oltre che per i suoi studi dedicati ad André Breton e al movimento surrealista. Forest appare così come uno scrittore estemporaneo, la morte tragica della figlia a soli quattro anni per tumore sembra indirizzarlo verso una letteratura prettamente autobiografica. Nulla di più sbagliato. Quello che appare come il tentativo di superamento di una tragedia si rivela invece come il brodo dentro cui al di là e ben oltre le motivazioni biografiche si alimenta la qualità sottile di un scrittore raffinato capace di tramutare i graffi e i tagli anche più atroci in un discorso narrativo potente e libero. Atratto da una testimonialità che si rivela non il fine, ma la miccia (certamente dolorosa) di un discorso, Philippe Forest indaga da sempre il tema della scomparsa e lo fa con gli strumenti del narratore puro, libero da infingimenti teorici come da un eccesso di realismo posticcio utile a lenire (forse), ma non ad approfondire, o meglio a rendere universale un discorso tanto intimo e traumatico. La visione narrativa coraggiosa e certamente fortemente ambiziosa di Forest sposta la tragedia dall'intimità a un piano prettamente letterario e quindi universale, dentro cui il lettore si ritrova catapultato come in un labirinto borgesiano o come in una qualche città più o meno invisibile. Il gatto di Schrödinger utilizza il paradosso di Erwin Schrödinger (fisico critico verso la visione ortodossa dei sistemi quantistici elaborati da Bohr e Heisenberg) per raccontare, o meglio quasi mettere in scena, il tema della contraddizione della scomparsa. Scomparsa come doppia presenza o di conseguenza come doppia assenza, scomparsa come parallelo verso mondi possibili e quindi comparabili, in cui l'alternativa non si oppone a una data realtà, ma proprio in virtù di questa permane sullo stesso piano, parallelamente, nel medesimo stato: ugualmente possibile e ugualmente attuale. Due gli esergo in apertura, uno ironico e delicato di scuse agli scienziati e una citazione di Picasso che apre e spiega il senso del libro e in sostanza di una poetica che fa di Forest un autore centrale oggi nel panorama letterario, tanto appartato quanto fondamentale. Scrive Picasso con la sua tipica affilata intelligenza: "Quando leggo un libro sulla fisica di Einstein e non ne capisco niente, non mi importa: mi farà capire altro". Ed è proprio questa la forza e la bellezza di ll gatto di Schrödinger, ossia la capacità (come di pochissimi romanzi oggi) di utilizzare come meri strumenti e senza avversione o paura i paradigmi che la scienza ha per raccontare quelli che si potrebbero definire i sentimenti più comuni, spesso ovvi come l'abbandono, la perdita di persone care o la solitudine. Sentimenti però sempre più difficili da individuare in una società straordinariamente tecnologica e in cui i paradigmi del tempo e dello spazio sono continuamente messi in discussione. Il romanzo si snoda attraverso pensieri e visioni di un uomo isolato in una casa al mare, abbandonato alle proprie visioni, eppure lucido, docile rispetto a un dolore che pare non dargli tregua e provenire da un tempo passato. Il gatto è un paradosso, un gioco che come tale evidenzia più che una contraddizione, quel passo leggero che separa la follia dalla lucidità. Nel mezzo il gatto si muove, fa le fusa: appare e scompare. Stare in equilibrio è così un modo per esplorare e non per negare ciò che gli occhi vedono come ciò che gli occhi pensano. Un continuo domandarsi, un prendersi cura degli occhi quasi cinematografico: campi sequenza alternati a primi piani che si sciolgono l'uno nell'altro, un rifrazionarsi lento e continuo che si prende tutto il tempo necessario, più che per raccontare, per vedere. Non sarebbe possibile riassumere o decifrare il romanzo, eppure ogni pagina appare secca, lucida: chiara in ogni sua parola. L'equilibrio è stare in bilico in questo caso tra teoria e racconto, tra letteratura e scienza. È questione di visione e destrezza e non di potenza. Una posizione che assicura una stabilità eccezionale che non mette in dubbio, ma determina la forza narrativa di un romanzo capace di sedurre il lettore con una materia inedita: decisamente colta, ma contemporaneamente estremamente sensibile, vicina alle cose, al tempo e ai giorni. Philip Forest non rielabora perché sarebbe comunque una riscrittura vacua, ma insegue (come direbbe il suo amato André Breton) la preda dell'impossibile. A tratti la sua scrittura ricorda la durezza di Peter Handke, ma senza l'inesorabilità di un destino dato, anzi è proprio questa differenza che rende il romanzo di Forest capace di uno slancio ulteriore raccontando di un tempo e di una società certamente non infinità, ma raramente decifrabile attraverso il suo linguaggio, e l'impressione è che Philip Forest lo stia da Tutti i bambini tranne uno, decodificando un poco alla volta.
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