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I numerosi ritratti fotografici di Sigmund Freud che accompagnano le sue biografie calamitano l'attenzione verso gli occhi che guardano, come se quello sguardo riuscisse a trasmettere imperativamente l'esigenza di cogliere la sua eccezionalità, ossia di considerarne la profondità, l'ampiezza e la partecipazione affettiva e analitica. Lo sguardo di Freud illumina i suoi oggetti con una forza di interpretazione che non spegne il loro valore di oggetti, ma riesce a far parlare insieme l'oggetto e lo strumento intellettuale tramite cui lo si osserva. Riflettere con atteggiamento «fenomenologico» sullo sguardo di Freud significa scoprire il tramite del conferimento di senso agli oggetti indagati. Questa attitudine «osservativa» di Freud, questa sua capacità di «vedere», anzitutto, per analizzare e interpretare, merita di essere indagata in quei luoghi della sua opera che sono caratterizzati dall'assenza della psicoanalisi, dal suo «non ancora», o dalla sua programmatica sospensione. Ciò vale soprattutto per quel breve capolavoro del vedere interpretante che è costituito dal saggio del 1913 "Il Mosè di Michelangelo", scritto dopo le numerose visite alla statua a San Pietro in Vincoli a Roma. La scelta di indagare il pensiero freudiano sul limite che circoscrive l'orizzonte della scienza psicoanalitica consente di comprendere criticamente ciò che avviene entro l'ambito della scienza freudiana, anch'essa dominata dall'imperativo dell'«osservazione» che si apre sulla «speculazione». Così come il senso del Mosè deve essere visto, interpretato e mostrato al di qua della psicoanalisi, allo stesso modo - nel cuore stesso della psicoanalisi - l'inconscio è un fenomeno che deve essere anzitutto visto nei sintomi, per acquisire il suo senso teorico. Grazie a questo tipo di approccio filosofico, che non accetta di ridursi a commento «subalterno» delle categorie psicoanalitiche, il tema del rapporto tra la riflessione filosofica e il pensiero di Freud ricava nuovo vigore.
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